L'ANTINOMIA DELLA BOUTIQUE

30-01-2014

La forte mobilità di soci rappresenta uno degli aspetti che più caratterizzano il nostro mercato legale, almeno stando a chi ci osserva dall’esterno. A fare riemergere questo tema sono stati diversi responsabili di Italian desk in giro per il mondo a cui TopLegal dedica una copertina sul prossimo numero di febbraio. La questione della mobilità si rivela nelle difficoltà degli studi legali stranieri di stabilire accordi di collaborazione con la controparte italiana che, per causa dei suoi frequenti mutamenti interni dovuti alla continua fuoriuscita di soci e di senior associate, fa venire meno le certezze che consentono di poter contare su rapporti stabili e continuativi.
 
Ebbene, la frammentazione che da tempo investe il mercato legale sembra ora essersi estesa su un fronte nuovo. Negli ultimi anni, il fenomeno ha assunto due profili: da una parte, il ridimensionamento dovuto alle squadre di diritto societario e finanziario in sovrappeso; dall’altra, la fuga di esperti nei settori anticiclici che hanno fatto proliferare nuove boutique. Ora sembra di essere giunti a una nuova stagione in cui sono a loro volta le boutique a dare segnali di difficoltà. Il mese di gennaio ha visto l’uscita della squadra milanese di Blf, confluita in Roedl, e la defezione dall’insegna giuslavoristica Lablaw di due soci di peso, il managing partner romano Nicola Petracca e Olimpo Stucchi. Queste ultime due partenze portano a sei il numero di soci usciti da Lablaw nel corso dell’ultimo anno. 

Può sorprendere che un modello di studio a trazione anticiclica, e finora premiato da un mercato in piena recessione, ora faccia fatica. Come proposta la boutique ha un valore potenzialmente alto perché rappresenta una struttura che parte da zero, ossia dalla domanda del cliente, piuttosto che essere rimodellata da una struttura esistente. Chiaramente, vi sono anche criticità – decidere come e con chi collaborare, per esempio, quando si assistono grandi clienti in operazioni di peso che richiedono una consulenza multidisciplinare, nonché convincere i clienti che conviene ripartire il mandato fra più studi di fronte a budget assai ridotti – ma queste sfide sono fisiologiche. Diversa, tuttavia, sembra la natura della sfida affrontata da studi come Lablaw, per cui le questioni di modello e di mercato sono scollegate e viaggiano su binari diversi.
 
Una chiave di lettura viene suggerita dal fatto che, dei sei soci usciti da Lablaw nell’ultimo anno, quattro avevano ricevuto promozioni interne e tre di questi hanno lasciato a meno di un anno dalla loro nomina. Tale livello di attrito fa riflettere sul modello di boutique il quale, a causa della sua dimensione compatta, è più esposto al rischio di una cultura personalistica che rende ingombrante la presenza di soci fondatori. La determinazione di superare questa logica si evince nella scelta del marchio impersonale che Lablaw, come altri spinoff, ha adottato al suo avvio. Questa volontà di spersonalizzazione sembra ora essersi affievolita. Una conferma ne è la recente campagna pubblicitaria che riprende i due fondatori dello studio con i grandi stivali da lavoro infangati; sebbene innovativa nei contenuti, questa comunicazione stride con il brand anonimo che intendeva promuovere. In un momento di crisi, può risultare giustificabile che lo studio punti sulle sue indiscusse eccellenze individuali. Ma in Italia questa mossa è sempre azzardata perché rischia di accentuare i conflitti interni anziché sanarli.


di Marco Michael Di Palma


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