Silvia Pisante (in foto), responsabile degli affari legali della biotech Molmed, ha ben chiaro cosa cerca nella consulenza esterna: una collaborazione gomito a gomito, che si liberi di un modus operandi che talvolta pecca di superficialità e poca sensibilità verso il cliente. Non basta più portare a casa il singolo risultato, ma il consulente deve essere capace di creare un rapporto virtuoso che duri nel lungo termine.
Per farlo non deve cedere alla tentazione di far cadere dall’alto la consulenza, piuttosto essere disponibile a farsi guidare dagli avvocati in house, diventando molto concreto sulle logiche ed esigenze dell’azienda. Esigenze che in Molmed, focalizzata nella ricerca, produzione e sviluppo di nuove terapie nel campo della medicina molecolare, possono essere più ampie e trasversali di quanto le dimensioni lascino pensare: solo sulla carta Pmi, occupando poco meno di 250 dipendenti, Molmed ragiona e opera come una grande azienda. Negli anni ha affrontato diverse operazioni straordinarie tra cui la quotazione in Borsa e la recente Opa volontaria totalitaria lanciata dalla giapponese Asahi Glass Company sulle sue azioni. E ora si prepara alla conseguente riorganizzazione societaria legata al possibile delisting da parte della nuova controllante.
E così fin dalla scelta del consulente esterno, in cui la competenza rimane un canone imprescindibile, una realtà come Molmed non guarda necessariamente agli studi che offrono le squadre più complete, ma piuttosto alle insegne con i professionisti più collaborativi e disponibili. Dove squadre trasversali non significano spersonalizzazione del rapporto. E dove i partner non perdono colpi ma seguono il dossier fornendo risposte puntuali. L’obiettivo è trovare all’esterno un solido punto di riferimento per tutto il corso del mandato.
Cosa manca nell’offerta di servizi legali?
Il livello di competenze degli studi legali è in generale molto elevato. Tuttavia a volte i consulenti esterni peccano di mancanza di sensibilità nei confronti del cliente, mantenendo un approccio troppo accademico e tecnico. Il consulente dovrebbe oggi giorno avere un atteggiamento più proattivo e manageriale, appoggiandosi a chi conosce bene l’azienda e le sue logiche: il legale interno. Anche lo studio legale più virtuoso, infatti, per sua natura non potrà mai acquisire la sensibilità tipica di chi è coinvolto in prima persona dalle vicende societarie: è un’attenzione che si acquisisce in anni di esperienza in house e di conoscenza delle dinamiche di quella particolare azienda.
Quali sono le conseguenze di questo approccio antistorico da parte dei consulenti esterni?
Questo approccio può sfociare in una mancanza di concretezza da parte degli studi legali, che mantengono un atteggiamento un po’ troppo teorico e poco pratico. Il cliente non è più ammaliato dall’opulenza dello studio o dalla sede prestigiosa; oggi contano più che mai – a fronte di parcelle rimaste elevate – qualità come la proattività, la creazione di valore aggiunto, la disponibilità e la capacità di fare strategia.
Su che cosa i consulenti esterni dovrebbero riflettere?
Dal punto di vista del rapporto tra cliente e avvocato, posso affermare che portare a casa il risultato è moltissimo. Ma non è tutto. È indispensabile che il cliente si senta compreso nelle proprie effettive esigenze e sia seguito adeguatamente e con continuità. Un aspetto delicato da tener presente è il rischio di una crescente spersonalizzazione del rapporto in conseguenza della recente tendenza degli studi a creare squadre con competenze trasversali a servizio dello stesso cliente, proprio al fine di poter offrire un servizio completo. Tale approccio è sì utile per i clienti che apprezzano la semplificazione del “one stop shop”, ma non deve andare a scapito del rapporto personale e fiduciario che rimane fondamentale nella relazione tra avvocato e cliente.
Eppure, la spersonalizzazione del rapporto deriva da un obiettivo perseguito da diversi noti studi in questi anni, ovvero l’assetto istituzionale. Qual è il problema sottostante?
Le squadre dovrebbero sempre individuare uno o (massimo) due referenti al fine di consentire al fruitore del servizio di sapere sempre a chi rivolgere le proprie istanze. Alcune volte può capitare infatti che il socio, una volta ottenuto l’incarico, affidi la gestione dell’attività a forza lavoro più junior, senza garantire una presenza costante in tutte le fasi della consulenza. In un mercato altamente competitivo come quello degli studi legali, è importante che i partner mantengano sempre il contatto con il cliente per assicurarsi che sia seguito correttamente. Altre volte può capitare che manchi un coordinamento interno allo studio tra i vari dipartimenti, con il rischio che il vantaggio di avere un unico referente legale in grado di fornire un servizio completo e organico si perda. Nel mio attuale contesto lavorativo, avendo la mia società adottato la politica di rivolgersi ai consulenti legali esterni solo per le questioni più spinose, è necessario che gli interlocutori siano figure senior, in quanto dotate di grande esperienza e abituate a fornire un riscontro veloce ed esaustivo.
La versione integrale dell'intervista è consultabile su E-edicola, numero di giugno-luglio 2020 di TopLegal Review.