Nelle prossime settimane l’Osservatorio di TopLegal riaccenderà i riflettori sul tema dei passaggi dei soci equity nei maggiori studi italiani. In attesa dei dati, che saranno pubblicati nel numero di giugno di TopLegal Review, si deve innanzitutto costatare che la proliferazione ininterrotta di passaggi contrasta con la diminuzione della domanda dei servizi legali rispetto al periodo pre-crisi. Per spiegare la grande mobilità di soci bisogna soffermarsi sulle peculiarità del settore legale.
Secondo l’osservatore statunitense Richard Rapp, sono cinque i fattori che favoriscono la corsa al socio lateral. Il primo in ordine di importanza riguarda la disomogeneità dei compensi tra uno studio e l’altro – lockstep puro, lockstep impuro, eat-what-you-kill, premiazioni tarate sul singolo professionista, altri su obiettivi istituzionali condivisi – nonché la divergenza notevole tra il valore attribuito allo stesso socio da due studi legali diversi. Questo significa che manca una formula riconosciuta e condivisa per premiare i talenti (qualora fossero appurati la capacità di fatturare e la profittabilità del professionista). A prova di questa ipotesi, lo stesso Rapp propone di considerare lo scenario controfattuale: se tutti gli studi avessero la stessa formula per remunerare la capacità di fatturare e di generare utili, l’incidenza dei passaggi sarebbe drasticamente ridotta.
Un secondo fattore riguarda la debolezza degli studi legali considerati come marchi rispetto al prestigio del singolo socio. Come è noto in Italia, la lealtà dei clienti propende verso il singolo professionista e si cambia spesso studio quando è ritenuto necessario seguirlo. Terzo, vi è la fragilità connaturata dello studio legale, il quale non è una realtà economica qualsiasi. Quando cambiano le fortune di un’insegna cambiano di conseguenza quelle di tutti i soci, e si crea un acceleratore che moltiplica le partenze e gli ingressi. Quarto, i passaggi laterali sono dettati dalla necessità di creare una leva per accrescere il contributo ai profitti da parte degli “uomini della pioggia”. Infine, e a differenza di altri settori, bisogna considerare la facilità con cui un socio possa inserirsi abbastanza in fretta e senza grandi costi in una nuova insegna senza la necessità di dover disporre di conoscenze nuove specifiche e approfondite.
Dalle inefficienze del mercato, e in particolare dalle differenze notevoli nelle remunerazioni dei soci tra uno studio e l’altro, Rapp trae una conclusione positiva poiché ritiene il lateral hiring una leva sostanzialmente costruttiva per allineare le preferenze dei soci mobili con gli studi meglio capaci di valorizzare il loro talento. Difatti, e come abbiamo appurato negli anni precedenti, la maggioranza dei soci equity sceglie di spostarsi verso realtà con una redditività superiore allo studio di provenienza. Anche la fuga contro-intuitiva verso studi con margini più bassi è motivata da un meccanismo di allineamento, nello specifico, il timore di perdere clienti di fronte all’esigenza di praticare parcelle troppo onerose.
Una criticità fondamentale, tuttavia, persiste. I lateral hire, per quanto diffusissimi, nella stragrande maggioranza dei casi non funzionano. Troppi soci laterali disattendono le aspettative dei managing partner o addirittura abbandonano lo studio dopo solo pochi anni. Una ricerca, pubblicata nel 2011 dalla società di consulenza inglese Motive legal consulting, ha dimostrato che ogni lateral hire che dura meno di cinque anni deve considerarsi un fallimento. Inoltre, come ha sostenuto The American Lawyer qualche mese fa, non vi è alcun nesso tra la campagna acquisiti di uno studio e la sua profittabilità. Per contro, si stima che solo un terzo dei passaggi laterali portano risultati positivi. Ma anche qui si tratta spesso di cosiddetti soci drizzlemaker, “uomini della pioviggine” piuttosto che della pioggia, capaci di disporre di un proprio giro di affari senza essere particolarmente performanti.
Tutto questo è noto ai managing partner i cui errori di valutazione sono dovuti però a un secondo punto cieco del mercato: la mancanza di trasparenza e le asimmetrie d’informazione che caratterizzano il mercato del reclutamento legale. Gli unici a conoscere in fondo le vere capacità professionali e la profittabilità del potenziale lateral sono il socio stesso e lo studio concorrente che sta per lasciare. Chi recluta non ha accesso privilegiato a queste informazioni. Ma c’è di più. Oltre a dover gestire le aspettative mancate, chi si focalizza sui lateral esterni rischia di mandare un messaggio deleterio ai propri soci leali e di allontanare i giovani talenti. Si sa, inoltre, che integrare nuovi clienti è più difficile rispetto a consolidare i rapporti con clienti esistenti.
Sembrerebbe che i problemi del lateral hiring non finiscano mai.