TopLegal Focus

Le due anime del penale

Nelle boutique predomina la specialità del rischio penale mentre le realtà full-service sono alla conquista di una riconoscibilità sul mercato. I clienti chiedono a tutti maggiore valore

06-02-2015

Le due anime del penale

I cambiamenti normativi degli ultimi anni in tema di compliance (231, ambientale, antitrust, lavoro, privacy, tributario) hanno accelerato il processo di trasformazione del ruolo del penalista, sensibilizzando le aziende nei confronti dell'attività penale di tipo consulenziale e preventivo. Per rispondere a questa evoluzione della domanda, i penalisti hanno iniziato un percorso di riorganizzazione delle loro strutture: si sono associati, strutturandosi in maniera piramidale; hanno imparato a lavorare in equipe; e hanno diversificato il loro lavoro, radicato nell'attività processuale e difensiva per allargarsi all'assistenza preventiva. 

Nell'ottica di analizzare questi cambiamenti e creare maggiori sinergie tra aziende e studi, TopLegal ha inaugurato il suo primo Focus – "I nuovi orizzonti del penale: da assistenza contingente a consulenza strategica e preventiva" –  il 22 gennaio a Milano, moderato da Luca Testoni, editore e direttore responsabile di EticaNews. L’incontro ha visto la partecipazione di un ampio e variegato panel: Massimo Dinoia, socio fondatore di Dinoia Federico Pelanda Simbari UslenghiRoberta Guaineri, partner di Moro Visconti De Castiglione GuaineriGiacomo Gualtieri, partner di Bana; Raffaella Quintana, partner di Dla PiperFrancesco Sbisà, partner di Bonelli Erede PappalardoGianpaolo Alessandro, Co-Head of group legal di UniCredit; e Stefano Giberti, General counsel di Ge Healthcare.

Nel corso del dibattito sono stati sdoganati temi cruciali per l'evoluzione del settore. Dalla necessità per le tradizionali boutique penaliste di diventare più aziendaliste alle modalità con cui negli studi full-service si possono far convivere sotto lo stesso cappello due culture legali molto diverse come il penale e il civile. Due sfide importanti per delineare le nuove basi del rapporto con il cliente. 

Tutti i relatori sono convenuti nel ritenere che nella fase della consulenza il penalista stia assumendo un ruolo sempre più importante per permettere ai vertici aziendali di prendere decisioni informate. Tuttavia, a differenza del civilista, per il penalista è più complesso convergere con il mondo d'impresa, da cui lo separano distanze culturali riconducibili alla sua formazione. Mentre i penalisti che fanno parte di strutture multipractice sono più avvezzi al linguaggio e alla cultura aziendale, quelli più tradizionali non sempre li condividono. Capita così che ciò che il cliente definisce una soluzione «creativa» a favore degli affari, può venire interpretato dal penalista più rigido nei termini di scorciatoia ai limiti della legalità. Così come ci sono professionisti che considerano ancora eticità e utilitarismo come obiettivi divergenti, anziché leggerli come i due termini di un binomio che dovrebbe essere alla base di ogni attività imprenditoriale. 

Mentre per le realtà penaliste più sofisticate è già in corso la terziarizzazione dei servizi – maggiore strutturazione interna, capacità di presentare ai General counsel preventivi di spesa e introduzione di contratti a tempo (quindi a forfait) per la consulenza ordinaria – i penalisti più tradizionali e meno strutturati devono adeguarsi maggiormente ai cambiamenti in corso. In questo senso, i margini d'evoluzione dell'offerta tradizionale sono ancora ampi. D’altra parte, anche il modello full-service si scontra con alcune difficoltà. Oltre alla convivenza di due culture legali molto diverse, deve fare i conti con un mercato in cui a volte permane il pregiudizio per cui chi opera in studi multipractice è più indicato per agire in fase preventiva; mentre la difesa in aula è ambito preferenziale del penalista tradizionale. L’evoluzione del mercato penale sembra così doversi confrontare con tre dinamiche fondamentali: la contrapposizione tra boutique penaliste e studi multipractice; la divergenza tra professionisti e clienti sulla visione del rischio penale; infine, la differenza sostanziale che permane tra consulenza penalistica e difesa processuale.

Boutique: strutturarsi per diventare più aziendalisti
I clienti cercano un’assistenza che sempre di più rispecchia le logiche e la cultura dell’impresa. Tuttavia, lamentano i clienti, il penalista più tradizionale talvolta dimostra un approccio troppo distaccato e persino superficiale rispetto agli affari. Il motivo, come emerso nel corso del Focus, risiede nella convinzione che, mentre l’ambito civile è più facilmente subappaltabile, il penale sia meno fungibile a causa dell’importanza del vincolo fiduciario che lega professionista e cliente. Cosa che fornisce un indizio significativo sulla percezione diffusa che incardina il diritto penale nella difesa processuale. L’elemento fiduciario, infatti, vale soprattutto in materia giudiziale. Ma, adesso, parlare di penale vuol dire anche parlare di consulenza. E la consulenza richiede al penalista una maggiore capacità di andare incontro alle esigenze delle imprese, attraverso una nuova consapevolezza che si traduce sia nei pareri che nella politica delle fee, in grado di mettere l’azienda nelle condizioni di portare avanti i propri progetti. E in questo ambito, la richiesta da parte dei clienti di una cultura nuova e più aziendalista, secondo Massimo Dinoia, trova una riscontro negli studi penali che si sono trasformati in associazioni e che hanno compiuto quindi una ristrutturazione interna. «La risposta è già stata data», ha affermato. 

Che i clienti tendano a considerare il rischio penale alla stregua di ogni altro rischio aziendale talvolta desta perplessità tra i penalisti, che intravedono in questo atteggiamento un principio «utilitaristico». Principio «moderno», certo, ma che troppo spesso non funzionerebbe perché spetterebbe all’impresa adeguarsi alla cultura penale, non il contrario. L’impresa dovrebbe, quindi, ispirarsi al principio di eticità.

Pur consapevoli della necessità di avvicinarsi alle richieste dei clienti, altri penalisti che operano all’interno di boutique monopractice precisano che l’incontro tra cliente e consulente dovrebbe avvenire a metà strada. Come sottolineato da Roberta Guaineri: «Anche il cliente dovrebbe capire la natura della tutela penale», culturalmente indotta a frenare le velleità in nome della liceità. D'altronde, questo avvicinamento dell'impresa al penale è già in corso e lo si nota nella diffusione di un modo di fare impresa più etico, «frutto di un cambiamento culturale ispirato proprio ai principi del diritto penale», ha incalzato Gualtieri. 

I rappresentanti delle boutique sono concordi nel ritenere che in fase preventiva il parere fornito dal consulente non possa essere corrivo, cercando soluzioni cosiddette «creative». Da un punto di vista di strutturazione della consulenza, quindi, l’umore diffuso tra i professionisti che operano all’interno di boutique è abbastanza omogeneo. «In fase di prevenzione, il nostro è un ruolo consultivo e non decisorio. Per questo deve anzitutto tenere presente l’umore delle procure. Poi, la decisione su cosa fare spetterà all’azienda», ha sintetizzato Massimo Dinoia. 

Mentre l’opinione su come dovrebbe essere erogata la consulenza rimane abbastanza rigida, sta cambiando più rapidamente l’idea di come debbano strutturarsi gli studi. Tutti, infatti, hanno convenuto che lo studio tradizionale, incentrato sulla figura del dominus, non rispecchia più le esigenze dei clienti. «Il primo cambiamento necessario per l’evoluzione del settore è la riorganizzazione degli studi in strutture complesse, in grado di dialogare efficacemente con le strutture aziendali», ha evidenziato Guaineri. «Il dominus è un primus inter pares con cui gli altri soci dovrebbero essere interscambiabili», chiosa Dinoia. E ancora: «Bisogna promuovere relazioni interne di tipo collaborativo che enfatizzino lo studio come istituzione», ha concluso Gualtieri.

Alla consapevolezza di miglioramenti necessari sul piano organizzativo, si accompagna un’altrettanto diffusa consapevolezza che si debba intervenire anche sul fronte delle tariffe. Mentre la difesa processuale desta pochi problemi – «se c’è di mezzo il giudiziale non c’è budget che tenga» – in fatto di consulenza il discorso cambia. E anche chi opera all’interno di boutique ha dimostrato di aver ben chiaro che, per essere partner “in continuità” di un’azienda, il consulente deve essere in grado di interagire con l’impresa modulando le fee in base a due tipologie di costo, quello legato alla consulenza ordinaria e quello relativo alla specifica contingenza. Se in quest’ultimo caso l’equilibrio è a favore dell’offerta, nella consulenza ordinaria le regole sono dettate dalla domanda e già iniziano a diffondersi i contratti a tempo, remunerati in base a logiche forfettarie.


Penalisti full- service: integrare le due culture 
La crescita del penale all’in­terno delle law firms italiane e straniere ha una particolarità tutta sua. Questa peculiarità italiana ha radice nella proli­ferazione della legislazione e la sua chiara posizione sulla responsabilità degli enti, non­ché nell’applicazione ( enforce­ment) spesso aggressiva delle procure e dei pubblici ministe­ri. Questi fattori hanno indot­to gli imprenditori a prestare un’attenzione sempre più con­creta al penale. Se il limite più grande per l’evoluzione della boutique penale sta nella necessità di integrarsi maggiormente alla realtà d’impresa, i penalisti che operano nelle realtà full­service hanno le idee molto chiare: il cliente deve essere messo al centro. Ma questo non implica certo consentire alla violazione delle norme. «L’avvocato, in quanto forni­tore di servizi, deve adeguar­si all’impresa. Anche se ciò non vuol certo dire che biso­gna ideare soluzioni talmente creative da essere illegali», ha sottolineato Raffaella Quinta­na. Secondo Quintana e Fran­cesco Sbisà spetta al penalista il compito di far comprendere all’azienda che operare in ma­niera etica può essere utile per gli stessi affari. L’eticità, quin­di, deve e può sposarsi con l’utilità, dando origine a un binomio che dovrebbe essere alla base di ogni business.

La capacità del penalista di svolgere al meglio il suo ruolo preventivo, abbattendo i costi e dando risposte in tempi celeri, a detta dei due professionisti, sarebbe favorita dalla possi­bilità di lavorare in strutture multipractice, che consento­no di avere un’interazione co­stante e immediata con i pro­fessionisti che si muovono in altre specializzazioni. C’è chi, di fronte a questa posizioni, potrebbe opporre che l’indi­pendenza del penalista rischia di essere inficiata e soggetta a conflitti d’interesse. Un punto su cui Quintana e Sbisà sono stati perentori. «Anche se la­voriamo in realtà più strutturate, siamo liberi professionisti a cui lo studio non può impor­re nulla. Premesso ciò, in caso di conflitto lo studio farebbe prevalere la messa in sicu­rezza dell’azienda dal rischio penale», precisano. La prassi, quindi, nei casi in cui non si possa svolgere una consulen­za nel modo migliore sarebbe di rinunciare al mandato. «Il conflitto va gestito un passo prima», spiega Quintana; «il penalista nel nostro caso par­tecipa e anticipa la problema­tica». E conclude Sbisà: «La qualità e l’etica professionale prescindono dalla tipologia di studio in cui si opera».

Le nuove basi del rapporto consulente/cliente
Le nuove basi del rapporto consulente/cliente sono state delineate da Gianpaolo Alessandro e Stefano Giberti, che hanno dato suggerimenti chiari ai penalisti su come confrontarsi con le logiche dell’impresa, per rappresentare nella maniera più idonea i rischi connessi al business e instaurare un rapporto sinergico con il General counsel. 

«Il parere deve essere utilizzabile. Niente esercizi scolastici». È così che Alessandro ha messo subito a fuoco uno dei problemi principali della rappresentazione della rischiosità in ambito penale. Secondo il co-direttore legale di UniCredit, il valore aggiunto in questo settore è dato proprio dalla capacità di dare un parere utilizzabile, vale a dire la «capacità di tradurre il sapere in uno strumento per prendere una decisione informata». Eppure, molti penalisti mancano l’obiettivo. La ragione di ciò, secondo Giberti, risiederebbe nella mancanza di volontà da parte dei penalisti – «almeno quelli che vedono se stessi solo come uomini d’aula» – di lavorare con l’approccio del consulente. In questo, concordano i due in-house, non conterebbe tanto l’appartenenza a una boutique o a uno studio full-service, quanto la cultura su cui si innesta l’istituzione studio. 

Altro tema fondamentale, e ad alto valore aggiunto per i clienti, è la previsione e la pianificazione dei costi. Vi è talvolta una mancanza di precisione da parte dei penalisti, che non è coerente con il modus operandi delle aziende le quali invece lavorano sulla capacità di pianificare la spesa legale. Per la direzione legale, quindi, la necessità di gestire i costi permane anche se si tratta di una voce in materia penale. Mentre i penalisti – lamentano i clienti – hanno ancora un approccio da «cifra tonda» e mostrano una volontà di non voler accettare il contradittorio nei confronti dei costi e l’insofferenza nell’essere trattati alla stregua di qualunque altro provider. Il mercato chiede, invece, una maggiore «creatività», sì, ma positiva nella strutturazione delle tariffe e la volontà da parte del penalista di incidere maggiormente nella consulenza di processo, che accompagna la vita aziendale in tutte le sue fasi e non soltanto in quella patologica. 

Fatte queste premesse, anche gli in-house hanno concordato con i consulenti su un punto saldo: il penalista è meno esposto del civilista al rischio di fungibilità in presenza di un fatto contingente. In questo ambito, la reputazione è ancora il primo criterio che orienta la scelta del professionista a cui affidarsi. Mentre il costo, seppur più rilevante che in passato, secondo i clienti non può essere la bussola che orienta le scelte.

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