Per capire le esigenze dei clienti ed individuare i criteri più importanti nella scelta di consulenti legali in ambito penale, sono state realizzate 20 interviste, che hanno coinvolto direzioni legali operanti in settori economici diversi. Dividendo il campione per fatturato, quattro aziende appartengono al cluster società italiane con fatturato inferiore ai 250 milioni; nove aziende rientrano nel cluster società italiane con fatturato superiore ai 250 milioni; e sette a quello delle aziende internazionali.
Le medie imprese italiane
Nella scelta dei penalisti da parte del cluster delle media imprese italiane, tra i criteri più rilevanti emerge l’autorevolezza del professionista presso gli uffici giudiziari. Cosa che facilita, a detta di un General counsel, «il motivare davanti alla procura tutti i dubbi e le incongruenze». A questo criterio si aggiunge la «sensibilità verso l’azienda», vale a dire la disponibilità a recarsi presso la sede aziendale per visionare documenti riservati che non possono circolare all’esterno.
La spesa da parte di questo target di aziende è in media di 150mila euro. Tra le cause maggiore di mandati penali, gli avvisi di garanzia frutto di segnalazioni fatte dall’Agenzia dell’Entrate per evasioni di grosse entità. Per questa tipologia di reati, secondo gli intervistati, è importante il lavoro congiunto tra advisor esterni e in-house: spetterebbe al General counsel presentare alla procura tutte le informazioni e dare ricostruzioni chiare e convincenti. Con un buon supporto in-house «nove volte su dieci si riesce ad archiviare l’Avviso di garanzia». Nella scelta dei penalisti conta molto il rapporto di fiducia instaurato nei precedenti mandati.
Le grandi aziende italiane
Analizzando il cluster delle grandi aziende italiane, si amplifica la differenza tra la consulenza penale/ societaria e la difesa penale della società. La prima richiede una reputazione consolidata e studi strutturati che possano affrontare una mole di lavoro considerevole e abbiano affrontato casi analoghi. Molto gradita, inoltre, una buona competenza anche in ambito civile. Invece, la difesa penale risulta essere una pratica «tipica»degli studi italiani ed è caratterizzata da un forte legame fiduciario e dalla velocità di risposta nelle procedure per i reati presupposti. Infine, tra i criteri di selezione più importanti vi è la «disponibilità», considerata nel penale «una cosa rara».
La spesa media per questa fascia si stima intorno ai 200 mila euro. Là dove si passa dalle semplici consulenze da qualche migliaio di euro per formazione/ revisione in procedure societarie, ai contenziosi da quasi un milione di euro all’anno che riguardano il settore finanziario per frodi bancarie, fallimenti o ristrutturazioni. Data l’attuale crisi economica, secondo i general counsel, l’andamento della spesa in consulenze penali stragiudiziali e giudiziali in ambito fallimentare è destinata ad aumentare, anche a causa di un iter processuale tutt’altro che veloce.
Per scegliere i consulenti penalisti, i General counsel utilizzano tipicamente le segnalazioni fatte dai consulenti civili, anche nell’ottica di facilitare sinergie. Una volta individuata una rosa ristretta di nomi, viene scelto lo studio che batte gli altri nella gara sui prezzi.
Nel settore finanziario, riscuotono grande interesse i seminari legati al tema dei derivati e i «profili penali per società e banche nelle ristrutturazioni aziendali». In termini di investimento, crolla l’interesse da parte delle aziende operanti nel settore rinnovabili, dato il ridotto numero di nuovi impianti da costruire e quindi la minore necessità di consulenze in tema di sicurezza sul luogo del lavoro, mentre per quanto riguarda il settore finanziario si segnala che i clienti stanno «già investendo»in maggiori consulenze in ambito penale.
Le straniere
Guardando al cluster delle aziende straniere, soprattutto multinazionali, i criteri più importanti per la scelta del penalista risultano essere l’esperienza e la reputazione maturata nel settore in cui opera il cliente. Decisiva, poi, la padronanza della lingua inglese, cosa che spesso «i penalisti più esperti non hanno». Oltre alla lingua, è fondamentale la conoscenza della giurisprudenza penale italiana ed estera, soprattutto per formulare pareri in grado di essere compresi dalla sede centrale e di anticipare i rischi che i consigli di amministrazione potrebbero compiere con le loro scelte.
Nel settore industriale, si segnala un’altra qualità, ovvero la «metodologia del lavoro»intesa come capacità di interagire con ingegneri e periti, nonché capacità di comprendere i complessi meccanismi finanziari. Accanto alle qualità tecnico professionali, i clienti sono particolarmente sensibili e danno un’elevata importanza al rapporto di reciproca fiducia con il proprio legale, dato che il casi penali possono avere un particolare eco a livello di mass media con gravi ripercussioni sulla società. Infine, si richiede una «executive presence», ovvero un professionista che gode di una reputazione consolidata nell’ambiente in grado di interagire con le procure delle grandi piazze italiane.
La spesa media da parte delle realtà straniere, soprattutto le società operanti nel settore industriale, è molto alta e supera il milione di euro l’anno. Le consulenze in ambito penale raggiungono prezzi così elevati perché si tratta di cause spesso riferite a contenziosi relativi a tematiche ambientali o incedenti sul luogo di lavoro. I general counsel non sono in grado di stimare in modo chiaro la tendenza in termini di spesa, perché troppo «imprevedibile»dato che spesso è in relazione a incidenti nel settore chimico-industriale, che possono «far impennare la spesa legale in maniera esponenziale».
La risposta degli studi: i penalisti si attrezzano
Dopo anni di immobilismo, i penalisti si confrontano con un mercato in evoluzione. Si abbandona l’unipersonalismo per vestire i panni di realtà più strutturate, magari integrate con i civilisti. Gare e preventivi non sono più tabù. E si cercano nuovi mercati: pmi in primis.
Nonostante la richiesta da parte dei clienti di una maggiore integrazione tra civilisti e penalisti, in Italia l’offerta penale si presenta nella maggior parte dei casi ancora disarticolata da quella civile. Eppure, qualcosa sta cambiando. Anche gli studi penali, chiamati dai clienti sempre più a gran voce a dimostrare una maggiore permeabilità alle sollecitazioni della domanda, superando quell’immobilismo che costituisce in questo settore più che in altri una nota distintiva, negli ultimi tempi hanno cercato soluzioni più adeguate ai cambiamenti del mercato.
In un settore in cui il modello vincente sembrava essere quello della boutique – guidata da un socio che nella maggior parte dei casi dà il nome all’insegna, e che si circonda di pochi collaboratori – nel 2012 fece notizia la decisione di Massimo Dinoia di nominare quattro nuovi partner, cambiando l’insegna in Dinoia Federico Pelanda Simbari Uslenghi. Da questa scelta pionieristica, che ha rappresentato uno dei primi tentativi di trasformare una boutique in uno studio più strutturato, ha preso avvio un periodo di fermento, che nel corso degli ultimi mesi ha portato a una serie di novità. La tendenza maggiore è andata, coerentemente con quanto chiedono i clienti, verso un’integrazione tra civile e penale.
Da sempre, una consistente fetta di lavoro penale proviene dagli studi civili, i quali, non avendo un dipartimento interno di diritto penale, collaborano con le boutique, trasmettendogli clienti e mandati dai risvolti penali. Si tratta di accordi consolidati nel tempo e basati su uno stretto rapporto di fiducia reciproco, come l’alleanza tra Gianni Origoni Grippo Cappelli & partners e lo studio del penalista romano Ciro Pellegrino.
Invece, il 2014 ha visto alcuni studi aprire internamente una practice di diritto penale. Da ultimo, è di settembre l’ingresso di Fabrizio Manganiello – penalista milanese impegnato al fianco del mediatore Gianluca Di Nardo nella vicenda che vede Eni accusata di corruzione internazionale in Nigeria – nello studio La Scala. «Abbiamo cercato di dare valore aggiunto al cliente, attraverso una copertura che non sia soltanto eccezionale come quella penalistica, ma anche di natura squisitamente commerciale/ civilistica», commenta Manganiello a TopLegal. In aprile, invece, era stata la volta di Bonelli Erede Pappalardo aprire al penale con l’ingresso di Francesco Sbisà di Dominioni Gobbi Sbisà, entrato con un team di cinque professionisti. Ancora più strutturata delle precedenti, l’esperienza di R&p Legal, che ha messo un piede nell’attività giudiziale e stragiudiziale in ambito white collar crime e compliance integrando, all’interno della sua struttura, gli studi dei penalisti Piero Magri e Giuseppe Vaciago, in precedenza titolari di Magri avvocati penalisti e Studio Htlaw.
«A differenza che nel giudiziario, nella consulenza è richiesta trasversalità ed è per questo che è nato il progetto di unione», spiega Magri. E continua: «È innegabile che si tratta di esperimenti faticosi in cui è necessario trovare la sintesi tra due culture diverse così come tra due diversi approcci al cliente. Per il penalista il rischio penale è sempre prioritario; mentre per l’avvocato d’affari ( lo dice la parola stessa) è prioritario mettere l’azienda nelle condizioni di far girare il business. L’unione tra civilisti e penalisti, quindi, richiede un’amalgama tra questi due approcci». Dello stesso avviso anche Vaciago, che, condividendo la necessità di un quotidiano confronto con una cultura (quella dei civilisti) diversa, ne sottolinea i vantaggi: «Dopo l’unione con R& p Legal, i clienti possono avvantaggiarsi di un servizio integrato e uniforme, sia nell’attività che nei costi».
Rischio commodity e le opportunità pmi
Penale e commodity: un binomio che fino a non molto tempo fa sarebbe stato considerato un ossimoro. Eppure, sorprendentemente, dalle risposte fornite nel corso dell’indagine compiuta dal Centro Studi TopLegal, è emerso che alcuni General counsel sono convinti che la standardizzazione dei servizi è un male a cui non può sottrarsi neanche questa categoria. In particolare, ad essere presa di mira come servizio ad alto gradiente di fungibilità, è la consulenza in materia di 231, che negli ultimi anni ha canalizzato un cospicuo ammontare delle risorse in-house, entrato nelle casse degli studi penali.
Messi a confronto con questo scenario, alcuni penalisti hanno ammesso che il pericolo è già dietro l’angolo. Come sottolineano Massimo Dinoia e Armando Simbari di Dinoia Federico Pelanda Simbari Uslenghi, «per poter difendere l’efficacia del modello 231 chi lo costruisce deve avere ben chiaro il ragionamento dei pm, che altro non sono se non penalisti puri. La 231 deve parlare la stessa lingua del magistrato. Quindi, il penalista è imprescindibile nella costruzione del modello. Eppure – notano – capita sempre più spesso di vedere modelli costruiti senza l’ausilio del penalista. Ebbene, ciò vuol dire che la commodity c’è già».
Fa eco Magri: «È vero che ormai di modelli 231 in giro se ne trovano tanti (e in questo forse si potrebbe parlare di commodity), ma questo discorso vale solo se i General counsel intendono fare dei modelli 231 validi solo su carta. Allora sì, si rischia di far passare il modello come commodity». E aggiunge: «Come dimostrano le sentenze giurisprudenziali, alle aziende non basta realizzare dei modelli su carta per non essere passibili di sanzioni. I modelli devono essere reputati efficaci». E il penalista è colui che presiede a questa efficacia. «Solo il penalista», sottolinea il socio di Bana Fabio Cagnola «può realmente valutare i profili di rischio. E l’analisi dei profili di rischio è il basamento su cui si fonda l’efficacia di un modello 231».
Eppure, per quanto il discorso sia vero in linea di principio, l’andamento del mercato e della spesa legale negli ultimi anni ha dimostrato come il processo di commoditizzazione dei servizi sia un strada che, una volta imboccata, difficilmente ha vie d’uscita. Così, gli studi stanno già pensando a come superare il rischio commodity, declinando il servizio in nuove offerte e nuovi mercati.
Secondo gli intervistati due sono le possibili soluzioni al problema: aprirsi al mercato delle pmi e cercare nuovi ambiti di intervento legati all’implementazione dei modelli 231.
Il mercato delle pmi, infatti, deve ancora essere esplorato perché molte non sono ancora dotate di modello o hanno modelli inefficaci, costruiti senza la consulenza del penalista. Ma le pmi non sono le uniche a offrire nuovi ambiti di intervento legali alla 231. Seppur già dotate di modelli efficaci, anche per le grandi aziende il capitolo 231 non può dirsi archiviato.
«Non dobbiamo più concentrarci sul modello 231, ma il problema deve diventare far vivere il modello 231 attraverso le attività di compliance», commenta Vaciago. E aggiunge: «L’organismo di vigilanza deve svolgere un audit qualificato, figlio dell’esperienza del penalista, che deve lavorare unitamente allo staff interno. L’audit spesso è fatto da tecnici che non hanno alcuna formazione in materia penale. Il ruolo del penalista può essere quello di revisione e formazione dello staff».
Via libera, quindi, ai partenariati in materia di formazione anche in ambito penale. Un dato significativo, emerso già dalla General Counsel Agenda 2014, che metteva in evidenza come per le direzioni affari legali uno degli aspetti più innovativi nella gestione del rapporto advisor- cliente fosse proprio la disponibilità degli studi esterni a fare formazione alle risorse in pancia alle aziende, facendo aumentare le competenze interne. Un dato doppiamente significativo perché mette in luce come anche alcuni penalisti – il cui lavoro e i cui fatturati sono per antonomasia da sempre legati alla contingenza degli eventi – stiano iniziando a maturare una visione strategica e di lungo periodo, nell’ottica di essere percepiti non più solo come avvocati, ma come partner di business. È così che i confini tra consulenza civile e penale sfumano sempre più, confluendo in un’unica direzione: un servizio integrato all’impresa.
Indagine penale