di Massimiliano Biolchini e Giulia Bifano – Baker McKenzie Italia
Quiet quitting, great resignations, wellbeing, work-life balance, performance management, employer branding, I&DE e digital nomads: concetti nuovi e stranieri, non solo sul piano linguistico ma soprattutto culturale e normativo, che negli ultimi tempi affollano l’agenda dei responsabili delle risorse umane di aziende di medie e grandi dimensioni, anche in Italia.
Mentre il mercato del lavoro si muove così rapidamente da rovesciare equilibri consolidati da decenni, la domanda a cui diventa impellente rispondere è: quali strumenti offre la normativa giuslavoristica vigente oggi in Italia ai direttori del personale per gestire con successo le nuove esigenze di imprese e lavoratori?
Ad una analisi sommaria del panorama normativo e giurisprudenziale italiano vigente la risposta è: pochi, inadeguati e insufficienti.
Nonostante una nuova sensibilità su alcuni temi (sorta non certo per lungimiranza politica ma per effetto della emergenza pandemica) possa essere riscontrata nella produzione normativa degli ultimi anni, l'Italia resta ancora arroccata sui temi classici della protezione del posto di lavoro e della lotta alla precarietà, con il progressivo smantellamento del Jobs Act, l’unica vera grande riforma del lavoro degli ultimi vent’anni. Ma resta ben lontana dall’aver elaborato e metabolizzato un corpo di regole sufficienti a supportare i datori di lavori nell’affrontare le sfide del mondo del lavoro di oggi.
In attesa di un doveroso intervento organico su temi decisivi come quelli elencati all’inizio, il rischio è che le aziende restino ingessate intorno a paradigmi organizzativi ormai obsoleti, con la conseguenza di perdere attrattività nei confronti della propria stessa forza lavoro e competitività nella ricerca di nuovi talenti. È dunque importante che le aziende sappiano sfruttare appieno il potenziale della normativa esistente, anche attraverso una consulenza legale sofisticata e specialistica, capace di suggerire un approccio strategico e di medio-lungo termine alla gestione delle risorse umane.
Perché questo sforzo abbia successo occorre partire dalla comprensione di cosa ci sia dietro questi fenomeni, e solo successivamente cercare il contenitore normativo in cui ricercare gli strumenti necessari a gestirli correttamente.
Cosa sia il fenomeno del great resignations (le "grandi dimissioni") partito dagli Stati Uniti e giunto anche in Europa è cosa chiara, più sottile invece il concetto di quiet quitting: un “abbandono silenzioso” che si traduce nel fare lo stretto necessario, limitandosi a svolgere "il minimo sindacale" contrattualmente dovuto, senza particolare impegno e desidero di apportare valore o contribuire in modo significativo al raggiungimento degli obiettivi aziendali, rinunciando di conseguenza a qualsiasi percorso di crescita e carriera.
Stando ad alcuni studi sulla materia, i due diversi ma assonanti fenomeni di abbandono sono accumunati da due ragioni principali: l'insoddisfazione economica e la necessità, divenuta urgenza dopo il periodo pandemico, di ricercare un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro.
Per quanto attiene al tema dell'insoddisfazione economica, è facile ma costosa (e dunque non risolutiva) la risposta che risiede negli aumenti salariali. Al contrario, sempre di maggiore tendenza è l'opzione di ripensare al welfare aziendale, mediante cui le imprese possono concedere benefit sotto forma di beni e servizi con costi più contenuti, anche agevolati in questo da normative fiscali di favore.
Sul punto, bisogna però riconoscere che non esiste una disciplina volta a regolare compiutamente il welfare aziendale: al netto di precise disposizioni contenute in alcuni contratti collettivi, si tratta di uno strumento sviluppatosi intorno alla disciplina lavoristica generale (che consente naturalmente alle aziende di erogare beni e servizi ai propri dipendenti, unilateralmente o mediante accordo anche sindacale) e alla lettura combinata di alcune norme Testo Unico delle Imposte sui Redditi ("TUIR").
Ed infatti, se il TUIR parte da una definizione di reddito di lavoro dipendente come l'insieme di tutte le somme e i valori a qualunque titolo percepiti in relazione al rapporto di lavoro, la stessa norma fornisce anche un elenco alquanto limitato di categorie di beni e servizi che non concorrono a formare tale reddito, con conseguente esclusione totale o parziale da tassazione (es. previdenza complementare, assistenza sanitaria, buoni pasto, servizi di educazione e istruzione, trasporto pubblico e mobilità, ecc.- in sostanza, quello che chiamiamo welfare). Ciò, comunque, a condizione che tali benefit siano erogati alla generalità dei dipendenti o a intere categorie di dipendenti.
Negli ultimi anni, si scorge comunque una crescente attenzione del legislatore sul tema welfare: al riguardo, vale la pena anzitutto porre attenzione alla possibilità strutturale di convertire i premi di risultato in beni e servizi agevolati mediante accordo sindacale. Non mancano poi misure di interesse introdotte per il solo 2023 in relazione alla possibilità di concedere a particolari categorie di lavoratori (genitori) benefit esentasse per un valore complessivo fino a 3.000 Euro.
Pertanto, pur essendo auspicabile da parte del legislatore una riorganizzazione della materia volta a ulteriormente semplificare e incentivare il welfare aziendale, la disciplina attuale consente alle imprese un importante spazio di azione e ripensamento delle politiche di remunerazione del personale, in un'ottica di ottimizzazione fiscale e contributiva e in linea con l'obiettivo di offrire ai dipendenti un potere di spesa maggiormente appetibile.
Come noto, il welfare non attiene però soltanto alla sfera retributiva, avendo ad oggetto un paniere di beni e servizi che molto hanno a che fare con quel wellbeing che sempre di più orienta le scelte dei lavoratori.
Venendo dunque alla seconda grande leva del mercato del lavoro attuale, non si può non prendere in considerazione il lavoro agile (in Italia impropriamente definito anche smart-working, con goffo anglicismo sconosciuto all’estero, che preferisce il più banale remote working o home-working), una delle risposte di maggiore popolarità (non priva di abusi) alla domanda di equilibrio vita privata-lavoro.
Se è oramai chiaro come questa modalità di lavoro preveda orari e luoghi flessibili per un numero di giorni stabiliti tra azienda e lavoratore in un accordo individuale, non pochi sono i temi che la normativa vigente ha omesso di disciplinare, con rischi significativi per il datore di lavoro. Tra i molti: la tutela dei dati aziendali, la gestione della salute e sicurezza dei dipendenti, l'esposizione fiscale, assicurativa e contributiva in relazione ai cosiddetti "digital nomads", la gestione di benefit quali i buoni pasto riconosciuti anche nelle giornate di lavoro da remoto, la valutazione della performance e la gestione dei casi disciplinarmente rilevanti.
Al riguardo, la disciplina nostrana consente un'ampia flessibilità alle pattuizioni tra le parti, consentendo anche di ignorare la regolamentazione di taluni aspetti e fissando limiti dai confini spesso incerti.
Pensiamo ad esempio alla regolamentazione dell'orario, rispetto cui la Legge n. 81/2017 stabilisce che la prestazione lavorativa si svolge senza precisi vincoli, fermo restando il rispetto dei limiti sulla sua durata massima. La norma dispone anche il dovere di individuare i tempi di riposo e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore, senza tuttavia chiarire cosa per disconnessione debba intendersi: al di là del comune sentire e delle più o meno buone intenzioni di ciascuno, una norma così scritta consente di adottare un concetto di "disconnessione" equivalente al diritto del lavoratore di non leggere né rispondere alle email per le undici ore intercorrenti tra la fine della giornata lavorativa e l’inizio della successiva. In tal caso ciò altro non richiamerebbe altro che l'antico riposo giornaliero già imposto dal D.lgs. n. 66/2003.
Questo, insieme all’assenza di sanzioni chiare per il caso di violazioni, fa sì che ad oggi sia sostanzialmente rimessa alla discrezione delle imprese virtuose l’adozione di una regolamentazione dei tempi “on” e “off” in grado di consentire un’efficace disconnessione dei lavoratori nel tempo libero. La pandemia ha palesato l’inadeguatezza di tale approccio e, per alcuni settori (ad esempio quello assicurativo) è intervenuta la contrattazione collettiva: in assenza di un quadro normativo adeguato, resta però importante per le imprese affrontare il tema in modo strategico. Ciò nell'ottica non solo di fornire ai propri dipendenti strumenti di concreto bilanciamento vita-lavoro utili all'obiettivo della retention, ma anche con lo scopo di anticipare correttamente le sfide in materia di responsabilità datoriale in fatto di salute e sicurezza che sempre più avranno a che fare con malattie e disagi di natura psichica (es. burnout).
Come detto, le sfide per gli HR imposte dal lavoro agile non riguardano unicamente la gestione del tempo di lavoro, ma coinvolgono numerosi aspetti che spetta proprio all'impresa indirizzare in modo da combinare le esigenze di flessibilità con quelle di una gestione sostenibile e tale da offrire ai datori di lavoro gli strumenti necessari ad affrontare agilmente le questioni legate a problemi disciplinari e di performance, nonché alla propria esposizione fiscale, assicurativa e contributiva. In questo senso, la regolamentazione aziendale e gli accordi individuali diventano alleati imprescindibili dell'impresa, trattandosi di documenti la cui redazione attenta può rivelarsi un importante strumento di tutela dell’azienda.
Nel campo del wellbeing e in stretta connessione con lo svolgimento di lavoro da remoto si pone anche la questione dell'inclusione e della diversità ed equità ("I&DE"). Anche in questo caso, siamo di fronte a una leva che nel mercato del lavoro assume proporzioni crescenti, complice anche un quadro normativo nazionale ed europeo sempre più stringente e ambizioso.
Anzitutto, vale la pena chiarire quale collegamento ci sia tra l'I&D e il lavoro agile: quello del lavoro da remoto, oltre ad essere una tema evidentemente connaturato ad un migliore coordinamento tra doveri lavorativi e impegni assistenziali propri della vita privata, è uno strumento che proprio il legislatore ha associato all'obiettivo della maggiore inclusione. Al riguardo, basti pensare al fatto che il comma 3-bis dell'art. 18 della L. 81/2017 impone ai datori di lavoro che adottano schemi di lavoro agile il dovere di riconoscere priorità alle richieste di genitori con figli fino a 12 anni (o di qualsiasi età laddove disabili), disabili e caregiver, anche disponendo che ogni azione svantaggiosa nei confronti dei lavoratori che chiedano di beneficiare di questa priorità (es. trasferimento, licenziamento) debba essere ritenuta discriminatoria e pertanto nulla. Su questo ultimo punto, si evidenzia dunque l'importanza di un approccio ancora volta attento alla questione, particolarmente importante ad esempio nel caso in cui si presenti l'esigenza di procedere al licenziamento di lavoratori interessati dalla disciplina.
Ma non è tutto: l'esistenza di schemi di lavoro agile in azienda è anche una delle questioni oggetto di valutazione ai fini dell'ottenimento della certificazione di parità di genere introdotta con la L. 162/2021.
Certo, non basta il lavoro da remoto ad ottenere tale certificazione e accedere ai relativi benefici, come d'altra parte neppure è sufficiente a dirsi datori di lavoro inclusivi e attenti ai temi dell'equità di genere. A tale proposito, per vincere la sfida dell'inclusività, proprio i Key Performance Indicators previsti dalla Prassi UNI/PdR 125:2022 (la quale detta le regole per l'ottenimento della certificazione di parità di genere) offrono alle imprese anzitutto un'ottima guida e spunto di riflessione. Dal ripensamento delle procedure di recruitment e job posting, passando per l'esplicitazione delle misure poste a supporto di chi rientra in servizio dopo un congedo di maternità o paternità, sino alla rivalutazione delle politiche retributive e dei percorsi di carriera, numerose sono le questioni che l'approccio alla certificazione di parità pone all'impresa, in ben 6 aree che vanno dalla governance ai processi HR.
Infine, a pochi giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea della Direttiva UE n. 2023/970 in materia di trasparenza ed equità retributiva, è anche interessante osservare come - di fatto- lo strumento facoltativo della certificazione di parità si riveli estremamente utile a preparare le aziende agli obblighi che sorgeranno una volta che tale direttiva sarà definitivamente adottata (entro il 7 giugno 2026). Tra questi, l'obbligo di rendere note ai lavoratori le informazioni sui livelli retributivi e i criteri per determinare la progressione di carriera. Ciò, unitamente alle esigenze di retention ed employer branding e ai benefici già previsti dalla normativa (primi tra tutti: gli sgravi contributivi e la possibilità che la certificazione sia rilevante ai fini dell'accesso ad appalti pubblici), rende ancora più importante per le imprese porsi concretamente il tema di come l'I&DE sia gestita, partendo da un'analisi attenta delle policy e prassi esistenti e degli obiettivi aziendali di medio e lungo periodo.
Forse non bastano welfare, lavoro agile e strategia I&DE a vincere le sfide che si impongono sulle scrivanie dei Responsabili HR di oggi e certamente, come abbiamo in parte visto, la normativa non è ancora a misura della realtà e delle esigenze e aspettative del mondo delle lavoro che si fanno sempre più pressanti: tuttavia, è chiaro come anche le norme attuali offrano alle imprese - se ben utilizzate - la possibilità di avvicinare di molto le organizzazioni ai propri obiettivi, aprendo a importanti spazi di manovra e gestione strategica del cosiddetto “capitale umano” dell’azienda.
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