L'IMPORTANZA (ILLUSORIA) DI ESSERE SOCIO

In un'impresa sana, detenere la proprietà non comporta privilegi. A differenza degli studi legali dove i partner pensano di comandare su tutto

29-10-2015

L'IMPORTANZA (ILLUSORIA) DI ESSERE SOCIO


Come esperimento mentale provate a porvi questa domanda: quale impresa, media o grande che sia, oggi come oggi penserebbe mai a rinunciare al proprio assetto societario per convertirsi in associazione? L'interrogativo, posto nella stampa di settore inglese alcuni mesi fa da Bruce McEwan, suona come una provocazione. Ma la risposta dovrebbe fare riflettere sui limiti reali di una forma organizzativa che ha da sempre caratterizzato il business legale.

A sostenere l'associazione professionale in passato è stata la presunta particolarità dell'attività forense, attività regolamentata fondata sulla storica distinzione, che è stata anche un principio, tra professione e impresa. Tuttavia, negli ultimi anni le basi di questo principio si sono progressivamente erose.

Già nel 1997, con la sua indagine conoscitiva, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) evidenziava, a proposito delle norme che disciplinavano l’esercizio dell’attività professionale, che «il conseguimento delle finalità pubbliche non è affatto incompatibile con la sottoposizione delle attività dei professionisti alle regole del mercato e della concorrenza». A seguire, la pronuncia del Tar Lazio del 2000, secondo cui «gli esercenti delle professioni intellettuali vanno considerati alla stregua di imprese», cancellava non solo il principio della distinzione fra professione e impresa ma poneva l'attenzione sulla forma organizzativa più idonea per consentire un'offerta efficiente e competitiva. Oltre alla competenza tecnica, serve raggiungere «obiettivi di efficacia (la soddisfazione del cliente) ma anche di efficienza, in termini di contenimento dei costi e di gestione del know how».

Le esigenze autoreferenziali della corporazione legale che dettavano la regolamentazione dell'attività professionale sono oramai superate. Tuttavia, la forma tradizionale attraverso la quale si è finora esercitata l'attività degli avvocati d'impresa prolifera come sempre. Vi sono tre motivi per ripensare l'associazione professionale.
 
Primo, la forma societaria attenuerebbe l'ingombrante sensazione di essere proprietario dello studio. Un giorno sarà forse finalmente possibile riconoscere la titolarità dello studio per quello che realmente è: un'illusione dannosa che inculca la convinzione che si abbia il diritto di comandare sulle questioni organizzative, operative e gestionali dello studio. Se fosse così, si arriverebbe subito alla paralisi o l'anarchia, poiché non si possono mettere d'accordo 30, 40, 50 proprietari (ma nemmeno 10 o 20). La proprietà dello studio dovrebbe essere invece un mero dato di fatto che riguarda solo lo statuto. In quanto questione formale non va quindi confusa con una questione sostanziale, ovvero l'idea  ̶  troppo pericolosa  ̶  per cui i soci devono avere in mano il controllo totale delle attività quotidiane dello studio legale.

Il secondo motivo deriva direttamente dal primo. In un'azienda, il fatto di detenere la titolarità non comporta, dal punto di vista organizzativo e operativo, alcun privilegio. Altrimenti i capricci dei soci avrebbero la priorità sulle strutture e in termini organizzativi. Sappiamo invece cosa succede negli studi legali associati: il mero fatto di essere socio porta alla pretesa di insegnare ad altri professionisti il modo di lavorare. Poiché ritenuti fungibili, i professionisti del marketing e del business development, come quelli del finance e dell'It, anche se di livello, dal momento in cui mettono piede in uno studio sono obbligati a seguire e a soddisfare i capricci mutevoli dei soci. Al contrario, una volta guariti dall'illusione della proprietà, i soci non intralcerebbero né demoralizzerebbero più chi ha una professionalità diversa ma alquanto fondamentale per il successo dello studio.

Ultimo ma non da meno, l'assetto societario metterebbe al primo posto, non il singolo professionista con i suoi comportamenti individuali e interessi variabili, ma lo studio come entità istituzionale. Nel mercato legale italiano sta aumentando la consapevolezza che il successo degli studi, per non dire la loro sopravvivenza, consista nella capacità di assicurarsi un ordine e una continuità attraverso il sostegno dei valori, delle norme e delle sanzioni. La superiorità della forma aziendale su quella associativa, da un punto di vista puramente funzionale, non può essere sottovalutata.

L'esperienza Dewey & LeBoeuf ha sfatato per sempre il mito che solo gli avvocati sappiano gestire uno studio legale. Forse è ora di fare tesoro di questa consapevolezza.

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