La recente legge sulla concorrenza ha stabilito che l’esercizio della professione forense può avvenire anche attraverso società di capitali partecipate da soci non avvocati (in misura massima pari a 1/3 del capitale e dei diritti di voto).
Da un lato significa che oggi la professione forense -al pari di qualsiasi altro business- rappresenta un’attività economica nella quale è possibile investire con finalità di ritorno economico (utili e plusvalenze). Dall’altro lato significa che -finalmente- le realtà professionali più meritevoli potranno beneficiare di strumenti essenziali per sviluppare il loro business (capitale di rischio ma anche know-how degli investitori).
Tralasciando considerazioni relative al ritardo con cui una tale riforma è stata varata (meglio tardi che mai), l’occasione può essere colta per tratteggiare alcuni primi temi di carattere strettamente applicativo.
In linea generale, ad avviso di chi scrive, buona parte delle chance di successo della nuova normativa dipenderanno da come verranno declinati, nel caso della società tra avvocati, i temi “classici” delle operazioni di investimento. La prospettiva qui considerata sarà quella dell’investitore “finanziario” (ossia con finalità più squisitamente speculativa), tralasciandosi quella -che approfondiremo in un successivo contributo- dell’investitore c.d. “industriale” (ossia attivo nel business della professione forense o in business complementari / connessi).
Un primo tema è se un business quale la professione forense, nel quale gli asset strategici sono essenzialmente i professionisti, potrà risultare effettivamente di appeal per un investitore. Le cronache, per esempio americane (v. caso Dewey LeBoeuf), hanno evidenziato chiaramente che la fuoriuscita di partner chiave da uno studio legale è in grado di decretarne rapidamente la fine. Si tratta di un rischio cruciale, insito nel tipo di business in argomento. Un investitore dovrà quindi verificare se le pattuizioni di blocco e le diverse garanzie proposte dalla società di avvocati siano in grado di produrre il comfort necessario per procedere.
Un secondo tema critico è quello della c.d. “exit”, ossia delle modalità con le quali si prevede che l’investitore (finanziario) possa disinvestire la sua partecipazione. Al riguardo è ragionevole ipotizzare che la società tra avvocati -anche nei primi anni a venire- sarà caratterizzata da una forte “illiquidità”: non esiste un mercato di riferimento né benchmark cui l’investitore possa riferirsi. Si tratterà quindi, anche qui, di capire se le parti saranno in grado di trovare assetti e condizioni soddisfacenti dal punto di vista di un investitore animato da obiettivi speculativi.
Un ulteriore tema è quello della “governance”: è evidente che l’investimento in una società tra avvocati prevedrà la conclusione di un patto parasociale contenente alcune garanzie a favore dell’investitore (che abbiamo visto essere necessariamente di minoranza). Si tratterà quindi di prevedere diritti di veto e di informativa, come in una qualsiasi partnership. La difficoltà aggiuntiva potrà essere di tipo “culturale”: per gli avvocati la sfida non è soltanto quella di accettare sensibilità ed esperienze diverse dalle loro, ma anche quella di comprendere che esse possono rappresentare un valore aggiunto e un vantaggio competitivo.
Molti i temi aperti e significativo l’interesse degli operatori rispetto ai nuovi scenari. Presto daremo conto degli orientamenti adottati dalla prassi, auspicando che le realtà professionali di maggior valore in Italia possano cogliere da subito le opportunità di crescita e sviluppo recate dalla recente normativa. A disposizione per confronto.