Anche quest’anno TopLegal ha deciso di sondare gli umori dei general counsel delle principali aziende operanti in Italia, per mettere nero su bianco il processo di cambiamento nel delicato equilibrio tra studi legali e clienti. La General Counsel Agenda, giunta al suo terzo appuntamento, ha coinvolto i direttori affari legali di un centinaio di aziende – eterogene per dimensioni ed industries – rappresentative di tre cluster: multinazionali, grandi aziende italiane e piccole e medie imprese. Nonostante le differenze tra le tre tipologie, incrociando e confrontando le risposte fornite, il risultato è quanto mai omogeneo: i clienti esigono il taglio dei costi, sia interni che esterni, e la ricerca del valore del servizio.
Il maggiore elemento di criticità evidenziato dall’agenda delle direzioni affari legali, che verrà pubblicata nel numero di maggio di TopLegal, è la difficoltà a trovare una quadra tra la crescita del lavoro e il sostanziale stallo di risorse interne e budget. In passato la crescita è stata l’altra faccia della medaglia della riduzione del budget. Infatti, la flessione di cassa destinata ai consulenti esterni permetteva alle direzioni di accrescere il lavoro internalizzato, rafforzando le expertise con l’acquisto di nuove risorse sul mercato. Ma oggi viene chiesto alle direzioni di fare un passo oltre. Il carico di lavoro continua ad aumentare per oltre i tre quarti del campione, un incremento focalizzato soprattutto in tre aree operative: compliance, D.leg 231 e amministrativo. L’aumento, però, non va di pari passo né con l’assunzione di nuovi professionisti (nei due terzi dei casi la compagine interna è rimasta invariata) né con un aumento di budget destinato a consulenti terzi (invariato nell’oltre la metà dei casi e diminuito nel quarto).
Come fare, allora, a produrre di più e allo stesso tempo ridurre i costi? La risposta sta nell’aumentare i margini di innovazione sia interni sia esterni. Internamente si cercano soluzioni a basso impatto economico, come l’utilizzo di forme alternative di collaborazione – secondment, avvocati a contratto e paralegal – o l’outsourcing interno di attività non core, come il recupero crediti, aumentato per il cento per cento delle multinazionali e dei big italiani. Le stesse attività che fino ad oggi erano affidate in outsourcing al miglior offerente, a prezzi fissi sempre più bassi, ora sono trasferite a funzioni aziendali con un minor carico di lavoro. Non c’è, infatti, miglior efficientamento di struttura e budget di quello a costo zero.
Nel rapporto con l’advisor legale, invece, oltre alla rinegoziazione delle parcelle a favore di una netta prevalenza di tariffazioni flessibili come il forfait e la fee con cap, vengono posti nuovi obiettivi per una gestione più innovativa della consulenza. Per esempio, all’assistenza spot su practice meno ricorrenti nel business aziendale inizia ad essere preferita la formazione su quelle stesse practice, che garantisce agli uffici legali di acquisire una maggiore trasversalità delle competenze interne, senza assumere nuovi professionisti. Una scelta apparentemente svantaggiosa per lo studio esterno, che – trasferendo know how – sottrae un possibile mandato alle sue casse.
Ma oggi bisogna andare oltre l’interesse immediato, quello di breve periodo. Al consulente è richiesto di avere una visione strategica e di diventare non solo advisor, ma partner di business. Ottica in cui acquista sempre più valore la capacità dello studio legale di agire in maniera preventiva così come la proattività nella semplificazione delle soluzioni e l’outsourcing di attività base.
Che si tratti di rivedere le logiche che regolano il funzionamento interno alla direzione o quelle che presidiano alla scelta e al rapporto con i consulenti esterni, l’obiettivo chiesto ai general counsel dai loro clienti interni è sempre lo stesso e coincide con quello che, a loro volta, i Gc vogliono dagli studi: l’imperativo è meno costi e più innovazione.
maria.buonsanto@toplegal.it