di Marco Michael Di Palma
Per mestiere incontro studi legali. Ne ho incontrati centinaia negli ultimi 20 anni e quasi tutti si presentano con un biglietto da visita identico. Sono unici. Hanno qualità. I professionisti sono altamente specializzati. La tutela del cliente è a trecentosessanta gradi. I miei interlocutori rimangono delusi quando faccio notare che la qualità sarà indubbiamente eccellente e gli avvocati il modello dell’assoluta rettitudine professionale, ma per i clienti questo è scontato perché la differenza lo fa il resto. Non faccio in tempo a elaborare il pensiero che arriva subito la replica. I clienti che vogliono risparmiare pagano due volte l’assistenza, la seconda volta per sistemare i pasticci della prima. Riprovo. I clienti sono disposti a pagare il servizio ma pretendono valore. Mi viene ridato il biglietto da visita.
Si pensa che a trasformare il neo avvocato in giurista affermato sia il semplice accrescimento delle competenze legali, come se si trattasse di una preformazione in attesa della sua maturazione. Ma non è così. Man mano che si cresce professionalmente sono le competenze stesse che cambiano. Un giovane avvocato ha come principale traguardo di raggiungere il numero di ore fatturabili e costruirsi una rete di conoscenze. Al socio spettano la gestione e la motivazione della squadra, lo sviluppo e la cura dei rapporti con i clienti e non solo. Si potrebbero aggiungere anche autocoscienza, capacità di migliorarsi, abilità comunicativa, saggezza, leadership. Tutte abilità cognitive, comportamentali e interpersonali non tecniche o trasversali che completano le conoscenze giuridiche rendendole più efficienti ed efficaci.
Gli avvocati tendono a trascurare le competenze trasversali convinti che siano piuttosto le doti tecniche e l’etica professionale le uniche necessità per un professionista. Ci sono ampie prove che dimostrano il contrario. Guardando la letteratura scientifica anglo-americana negli ultimi dieci anni, emerge una chiara contrapposizione tra clienti e avvocati sulle capacità ritenute più importanti. Per i clienti, le prime cinque qualità sono la comunicazione, la capacità di ascolto, la reattività e la prontezza ad accogliere gli interessi del cliente, la spiegazione chiara delle disposizioni tariffarie e la stima accurata dei costi, e infine, la gestione di progetto. Per i professionisti legali, le abilità più importanti sono la competenza legale e la conoscenza delle norme applicabili, il rispetto del segreto professionale, la puntualità, la mitigazione del rischio e il rispetto per gli impegni presi. Per l’appunto, la comunicazione che i clienti piazzano in cima alla classifica dei desiderata viene collocata all’ultimo posto dagli avvocati.
La sconnessione sul valore della comunicazione genera frequenti incidenti. Capita che i clienti si lamentano per l’arroganza dei consulenti esterni e per la loro aggressività (anche oltre il livello di scortesia). Capita anche che un consulente non chieda chiarimenti in merito agli obiettivi dell’assistenza o al budget, convinto di aver capito perfettamente e, nell’eventualità, che il suo assistito comprenda e saldi comunque la parcella. Le due parti divergono inevitabilmente sulla percezione del successo dell’assistenza. Le critiche del cliente fanno suscitare reazioni difensive nel professionista che impediscono a quest’ultimo di migliorare e... si torna all’inizio.
Altro punto delicato per gli avvocati è la leadership, snodo di più competenze trasversali. Ogni studio legale ha almeno un leader, molti ne hanno più di uno a capo dei vari comitati e dipartimenti. Il professionista leader tuttavia incarna un paradosso. Chi raggiunge la vetta dello studio lo fa quasi sempre grazie alle capacità giuridiche e al fiuto per gli affari. Eppure saper assistere i clienti e generare fatturato hanno poco o nulla a che fare con le qualità necessarie per la conduzione di uno studio o una parte di esso. In questo ambito servono piuttosto l’utilizzo ottimale dell’autorità, la pianificazione e definizione delle priorità, la definizione dei problemi, la scelta e implementazione di piani attuabili e la gestione dei conflitti. Non sorprende che il modello di leadership prevalente negli studi legali sia di stampo transazionale, modello che si basa sui premi contingenti (il denaro in cambio delle prestazioni), sulla gestione per eccezione (si interviene solo in caso di palese violazione di regole o norme) e sulla passività (si evita ove possibile di prendere decisioni). Altro appunto: secondo gli studi di management aziendale, la leadership transazionale si rivela la meno efficace in assoluto.
Le competenze trasversali servono eccome nonostante manchino la piena consapevolezza del loro valore. Forse c’entra l’annebbiamento creato dall’anglicismo soft skill che evoca qualcosa di debole e privo di energia o virilità, contrapposto ineluttabilmente agli hard skill, quelli tangibili, misurabili e trasferibili. In realtà, queste cosiddette capacità morbide fanno dannatamente paura. Serve coraggio per mettersi costantemente in discussione. Nulla di soft qui, altroché.