Una situazione analoga si sta verificando nel mercato legale. E la logica che muove i fili di questo fenomeno è semplice: quando il mercato si frammenta e più operatori sono in grado di vendere lo stesso prodotto ( la consulenza legale), il prezzo è uno dei pochi elementi in grado di fare la differenza. E se non si vuole rimanere tagliati fuori dal mercato, abbassare le tariffe diventa in molti casi l’unica scelta percorribile. In un mercato in cui tutti agiscono solo sul fattore prezzo, il risultato sarà che si venderà la stessa quantità di prodotto, ma con margini sempre più bassi. Ecco, allora, che la parola dumping inizia a risuonare tra i corridoi degli studi.
Le battaglie sul prezzo sono solitamente ciò che la teoria dei giochi definisce un gioco a somma zero. La lotta al ribasso è una spirale autodistruttiva: ogni volta che si riducono le fee per un servizio legale, si innesca una reazione a catena per cui tutti i player del mercato scendono un gradino, fino al punto in cui aggiudicarsi un mandato può arrivare a significare, paradossalmente, lavorare senza generare profitto.
Eppure, nel dumping – come nel dilemma del prigioniero – l’assioma di razionalità (non partecipare alla guerra del ribasso) sembra fallire, inducendo le insegne legali a un’azione apparentemente controproducente ( partecipare). Anche gli studi più blasonati concorrono in gare che li vedono aggiudicarsi i mandati offrendo sconti fino al 90% rispetto alla base d’asta fissata dai clienti ( già risicata di suo).
A motivare la scelta apparentemente “ irrazionale” è, invece, una considerazione illuminata: quelle in atto nel mercato legale non sono politiche di dumping, ma le logiche conseguenze di un settore in via di ridefinizione. A fronte di chi dietro le quinte ancora parla di concorrenza sleale (o dumping che dir si voglia), molti attori chiamati da TopLegal a confrontarsi sull’argomento leggono lo scenario come una naturale evoluzione del mercato. Conseguenza di una domanda in calo ( le aziende già da tempo tendono a internalizzare quanta più parte del lavoro è possibile) e di un’offerta che deve attrezzarsi, cercando la marginalità non in fee altissime ma in una maggiore efficienza della struttura.
Il problema alla base dello spauracchio dumping è uno: l’impossibilità di valutare il costo effettivo di un servizio. Mancano, infatti, dei paletti che delimitino i confini tra ciò che è un prezzo ragionevole e ciò che non lo è, così come tra ciò che rappresenta un reale valore aggiunto nel servizio e cosa no. Come fare, quindi, a parlare di concorrenza sleale in un mercato in cui vige la più totale deregulation?
Questa situazione – che oggi, in un mercato che procede a singhiozzi, fa paura a molti – fino a non molto tempo fa consentiva alle insegne una deregulation al contrario, spingendole a gonfiare le parcelle in modo spregiudicato. In passato, quando erano i consulenti esterni i deus ex machina del mercato, il prezzo del servizio fungeva da barometro del valore e della qualità della consulenza. Con la conseguenza di un fortissimo scollamento tra prezzo e reale valore del servizio. Oggi, invece, si gioca a parti inverse: sono i clienti a stabilire quanto intendono pagare. E i clienti vogliono il miglior servizio possibile a un prezzo che rifletta il valore che loro danno a quella consulenza e non il costo affrontato dagli studi per offrire quel servizio (a cui dovrebbe aggiungersi anche un margine di profitto). Con la conseguenza che lo scollamento tra prezzo e valore è spesso tutt’altro che superato: la differenza è che oggi va a vantaggio dei clienti, che riescono a strappare mandati a prezzi di saldo. Ci sono intere aree con prezzi compressi da anni. E la soluzione per gli studi non può essere quella di sottrarsi alla competizione giocata sui prezzi. D’altronde ci sarà sempre qualcuno pronto a offrire quella stessa consulenza a una tariffa migliore. Che piaccia o no, il prezzo è un fattore competitivo e sottrarsi alla competizione non può essere la risposta degli studi. Una possibile soluzione è lo stesso mercato a suggerirla: dal confronto tra advisor e clienti emerge la necessità di trasformare la guerra dei prezzi in guerra dei costi. Solo riducendo le inefficienze e ottimizzando le efficienze delle strutture domanda e offerta potranno allinearsi su un prezzo “giusto”.
Il dumping visto dagli studi
Chiamatela concorrenza, non dumping. Molti studi – sicuramente molti più di quanti in tempi di crisi sarebbe stato lecito aspettarsi – sono concordi nel ritenere che l’utilizzo al ribasso della leva prezzo sia un semplice indicatore della direzione in cui va il mercato, « che da un certo punto di vista ha sempre ragione », sottolinea il partner di Nctm Alberto Toffoletto.
E continua: « Il sistema sembra volere la competizione. In questo momento l’offerta supera la domanda, quindi i clienti portano gli studi a confrontarsi sul prezzo. Mettere i legali in gara è lo strumento più logico per cercare un’offerta combinata di qualità e prezzo. Anch’io se fossi un cliente farei lo stesso ».
Concorda il managing partner di Shearman & Sterling Domenico Fanuele. « La parola dumping – chiosa – ha un’accezione estremamente negativa perché ha il connotato di concorrenza scorretta. Parlare di dumping avrebbe una logica se ci fosse un benchmark chiaro. Ma ogni studio ha una struttura diversa e un prezzo di servizio commisurato ai costi. Per capire se c’è dumping bisognerebbe prima definire il prezzo di un servizio, cosa non definita né definibile ».
Il nodo che rende più criptico il tema è proprio l’applicazione del concetto di dumping a un mercato non regolato come quello legale. Che cosa fa parte del processo di erosione del prezzo che porta a un nuovo punto di incontro tra domanda e offerta e cosa, invece, è definibile dumping? Nel mercato di 20 anni fa vigeva in pratica un regime di monopolio. Solo uno sparutissimo numero di insegne era in grado di fare determinate operazioni e i prezzi erano decisi da loro. Poi, però, gli studi hanno gemmato e i professionisti in grado di lavorare su quelle stesse operazioni si sono moltiplicati, rendendo quel servizio una commodity da affidare a un advisor, piuttosto che a un altro, sulla mera valutazione del prezzo. Ma questo è dumping? Piuttosto, sembrerebbe rispondere alla normale dinamica del beauty contest, che, però, in alcuni casi rischia di diventare una dinamica perversa. Sempre più spesso capita che in studi con centinaia di avvocati – paradossalmente proprio quelli che hanno i costi di struttura più alti e quindi dovrebbero essere i meno aggressivi dal punto di vista degli onorari – ci siano interi team sottoutilizzati. In questi casi, i prezzi predatori sono applicati per mettere a lavoro professionisti che, in alternativa, rappresenterebbero solamente una voce di costo nei bilanci delle insegne. Come dire, prendere dei mandati, anche se sottoprezzati, diventa un modo per contenere le perdite. « Il rischio però – commenta il partner di Simmons & Simmons Giorgio Fraccastoro – è che, abbassando troppo le fee, i clienti si abituino a prezzi non sostenibili, che porteranno inevitabilmente ad una riduzione della qualità del servizio. Una volta gettate queste basi sarà difficile tornare a una situazione di equilibrio ».
Meno morigerate sono le posizioni raccolte dietro le quinte. Chiamati a commentare in via riservata la guerra dei prezzi, alcuni professionisti non celano una certa preoccupazione. « Alcuni studi accettano contenziosi con bassi onorari per sperare in future consulenze remunerative, che spesso non arriveranno mai. I piccoli studi stanno praticamente scomparendo dal mercato. Restano i grandi nomi, che con questa politica tagliano le gambe a tutti », commenta un professionista. « Il compenso è crollato, conosco colleghi che fanno praticamente lavoro pro- bono. Ma così ci si svende e il servizio perde in termini di qualità », chiosa il partner commentando la corsa al ribasso nel settore labour e denunciando la pratica soprattutto nelle procedure di mobilità. Tensioni sul prezzo anche maggiori si registrano sul fronte del corporate e del banking & finance, « operazioni che ormai fanno tutti », dove sono denunciate consulenze per meno di 40mila euro su emissioni obbligazionarie da milioni di euro. Se il dumping è forte nell’attività ordinaria, meno soggetti a pressioni economiche sono gli specialisti in settori di nicchia. Tra questi, gli esperti del regolamentare e dell’antitrust, « dove il cliente sa di rischiare pesante in caso di errore », quelli del restructuring, « dove saper battere sul tempo la crisi di un’impresa e le sue complessità pone il problema del costo in secondo piano, salvo poi non essere proprio pagati a causa del fallimento della società », oppure quelli del penale, « fronte su cui i clienti non sono assolutamente attrezzati ».
Nonostante qualche eccezione, la consapevolezza diffusa è che nella commercializzazione dell’attività legale e in un mercato generalmente così asfittico, gli avvocati saranno destinati a guadagnare meno. I soci di oggi già non godono degli stessi privilegi di quelli di ieri: ci sono molti più salary e si accede alla partnership con pochi punti equity. E questo è solo uno dei retroscena meno visibili dell’erosione dei margini.
Il dumping visto dai clienti
La domanda vuole servizi più efficienti e il taglio ai prezzi del servizio legale dovrebbe diventare un forte stimolo per strutturarsi in maniera più efficiente. Gli studi dovrebbero ripensare i loro modelli, attrezzandosi per recuperare redditività. È questo il messaggio che emerge con forza, fronte clienti, parlando di dumping. Chiamati a confrontarsi sul tema, i clienti – così come gli advisor – ritengono inappropriato parlare di concorrenza sleale. Secondo l’ex general counsel di MPS Raffaele Giovanni Rizzi, « non si tratta di dumping, ma di prezzo di mercato». E prosegue: « Alcuni servizi, ormai, dovrebbero essere offerti gratuitamente al cliente. Si tratta di muoversi orizzontalmente, offrendo i prodotti commodity a costo quasi zero, per risalire la catena verticalmente, ottenendo mandati più rilevanti a prezzi equi ».
È dello stesso avviso anche il vice president director legalbusiness affairs and litigation di Ansaldo Sts, Filippo Corsi: «La spending review imposta dai piani di efficientamento aziendali ha portato all’attenzione delle direzioni affari legali il tema del prezzo del servizio e la necessità di internalizzare buona parte del lavoro. Riducendosi la domanda, l’offerta deve necessariamente diventare più flessibile e il punto d’incontro sul prezzo del servizio si abbassa. Tuttavia – specifica Corsi – sarebbe miope la guerra dei prezzi su alcune attività cruciali, come quelle in cui c’è condivisione della responsabilità tra advisor e cliente. In quei casi, il prezzo diventa quasi garanzia di prestigio e deve essere giusto rispetto alla complessità dell’operazione».
L’associazione prezzo-qualità è rimarcata anche dal direttore degli affari legali di Microsoft Sibilla Ricciardi, che sottolinea: «Non si può scegliere un consulente perché è il meno caro. Un advisor troppo economico è garanzia di poca qualità. La competenza deve essere pagata, ma non strapagata». Per i clienti, quindi, l’obiettivo non è ricevere un servizio a prezzi stracciati, ma individuare il prezzo più giusto. E un prezzo giusto, secondo la percezione degli in-house, è quello che non fa gravare sulle aziende i costi della sovrastrutturazione o della cattiva gestione degli studi. In altre parole, ci sono costi e costi. E le aziende sono disposte a pagare soltanto quelli che possono portare valore aggiunto all’offerta ricevuta, in termini di aggiornamento, di informatizzazione del processo, di qualità delle risorse professionali impiegate. Invece, « un ufficio con vista sul Duomo o sul Colosseo non rientra certamente tra i costi che siamo disposti a far gravare sulle nostre casse », sottolinea un general counsel.
Tradotto in altri termini, il suggerimento mosso dalle aziende non è quello di competere sul prezzo ma sui costi delle strutture. L’assioma è semplice: arrivare all’efficienza strutturale significa riuscire a vendere i propri servizi a prezzi competitivi, pur mantenendo margini di profitto. Infatti, indipendentemente da cosa succede nel mercato, una regola non cambia mai: il profitto è dato dalla differenza tra ricavi e costi. Se competere sul prezzo è un male necessario, competere sul costo può essere la chiave per affrontarlo. Una volta raggiunta l’efficienza di struttura, combattere la guerra sui prezzi – contrariamente a quanto suggerirebbe la teoria dei giochi – diventa una scelta razionale. Si soddisfa il cliente pur mantenendo inalterato il profitto. Se gli altri studi non sono altrettanto attrezzati si può forse parlare di dumping? No, è così che funziona il mercato.
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