Storia di copertina

NON CHIAMATELO DUMPING

La competizione sul prezzo, grazie a una domanda in calo e un’offerta che deve attrezzarsi, è conseguenza di un settore in via di ridefinizione. Per mantenere la marginalità, tutto sta nel trasformare la guerra sui prezzi in guerra sui costi

01-11-2013

NON CHIAMATELO DUMPING

Nella primavera del 1992, la compa­gnia aerea Ame­rican Airlines, provata dalla re­cessione e dalla competizione delle compagnie low cost, an­nunciò un nuovo piano tariffa­rio, con forti sconti sui prezzi. Anziché allinearsi alle sue tarif­fe, i due vettori concorrenti, Twa e Usair, ingaggiarono una lotta al ribasso che portò l’industria del trasporto aereo americano a perdere, nel giro di pochi mesi, quattro miliardi di dollari. Come in tutte le guerre giocate unica­mente sul prezzo tutti i parteci­panti finirono col subire perdite.

Una situazione analoga si sta verificando nel mercato legale. E la logica che muove i fili di questo fenomeno è semplice: quando il mercato si frammen­ta e più operatori sono in grado di vendere lo stesso prodotto ( la consulenza legale), il prezzo è uno dei pochi elementi in grado di fare la differenza. E se non si vuole rimanere tagliati fuori dal mercato, abbassare le tariffe di­venta in molti casi l’unica scelta percorribile. In un mercato in cui tutti agiscono solo sul fat­tore prezzo, il risultato sarà che si venderà la stessa quantità di prodotto, ma con margini sem­pre più bassi. Ecco, allora, che la parola dumping inizia a risuo­nare tra i corridoi degli studi.

Le battaglie sul prezzo sono solitamente ciò che la teoria dei giochi definisce un gioco a somma zero. La lotta al ribas­so è una spirale autodistrutti­va: ogni volta che si riducono le fee per un servizio legale, si innesca una reazione a catena per cui tutti i player del mer­cato scendono un gradino, fino al punto in cui aggiudicarsi un mandato può arrivare a signifi­care, paradossalmente, lavora­re senza generare profitto. 
Eppure, nel dumping – come nel dilemma del prigio­niero – l’assioma di razionali­tà (non partecipare alla guerra del ribasso) sembra fallire, inducendo le insegne legali a un’azione apparentemente controproducente ( partecipa­re). Anche gli studi più blaso­nati concorrono in gare che li vedono aggiudicarsi i mandati offrendo sconti fino al 90% ri­spetto alla base d’asta fissata dai clienti ( già risicata di suo).

A motivare la scelta apparen­temente “ irrazionale” è, invece, una considerazione illuminata: quelle in atto nel mercato legale non sono politiche di dumping, ma le logiche conseguenze di un settore in via di ridefinizione. A fronte di chi dietro le quinte an­cora parla di concorrenza slea­le (o dumping che dir si voglia), molti attori chiamati da TopLe­gal a confrontarsi sull’argomen­to leggono lo scenario come una naturale evoluzione del mercato. Conseguenza di una domanda in calo ( le aziende già da tempo tendono a internalizzare quanta più parte del lavoro è possibile) e di un’offerta che deve attrezzarsi, cercando la marginalità non in fee altissime ma in una maggiore efficienza della struttura.

Il problema alla base dello spauracchio dumping è uno: l’impossibilità di valutare il co­sto effettivo di un servizio. Man­cano, infatti, dei paletti che deli­mitino i confini tra ciò che è un prezzo ragionevole e ciò che non lo è, così come tra ciò che rap­presenta un reale valore aggiun­to nel servizio e cosa no. Come fare, quindi, a parlare di concor­renza sleale in un mercato in cui vige la più totale deregulation?

Questa situazione – che oggi, in un mercato che procede a sin­ghiozzi, fa paura a molti – fino a non molto tempo fa consentiva alle insegne una deregulation al contrario, spingendole a gonfia­re le parcelle in modo spregiudi­cato. In passato, quando erano i consulenti esterni i deus ex ma­china del mercato, il prezzo del servizio fungeva da barometro del valore e della qualità della consulenza. Con la conseguenza di un fortissimo scollamento tra prezzo e reale valore del servi­zio. Oggi, invece, si gioca a parti inverse: sono i clienti a stabilire quanto intendono pagare. E i clienti vogliono il miglior servi­zio possibile a un prezzo che ri­fletta il valore che loro danno a quella consulenza e non il costo affrontato dagli studi per offri­re quel servizio (a cui dovrebbe aggiungersi anche un margine di profitto). Con la conseguenza che lo scollamento tra prezzo e valore è spesso tutt’altro che su­perato: la differenza è che oggi va a vantaggio dei clienti, che riescono a strappare mandati a prezzi di saldo. Ci sono intere aree con prezzi compressi da anni. E la soluzione per gli studi non può essere quella di sottrar­si alla competizione giocata sui prezzi. D’altronde ci sarà sempre qualcuno pronto a offrire quella stessa consulenza a una tarif­fa migliore. Che piaccia o no, il prezzo è un fattore competitivo e sottrarsi alla competizione non può essere la risposta degli studi. Una possibile soluzione è lo stesso mercato a suggerir­la: dal confronto tra advisor e clienti emerge la necessità di trasformare la guerra dei prezzi in guerra dei costi. Solo riducen­do le inefficienze e ottimizzan­do le efficienze delle strutture domanda e offerta potranno allinearsi su un prezzo “giusto”. 

Il dumping visto dagli studi 

Chiamatela concorrenza, non dumping. Molti studi – sicu­ramente molti più di quanti in tempi di crisi sarebbe stato le­cito aspettarsi – sono concor­di nel ritenere che l’utilizzo al ribasso della leva prezzo sia un semplice indicatore della dire­zione in cui va il mercato, « che da un certo punto di vista ha sempre ragione », sottolinea il partner di Nctm Alberto Toffoletto.

E continua: « Il sistema sembra volere la competizio­ne. In questo momento l’offer­ta supera la domanda, quindi i clienti portano gli studi a confrontarsi sul prezzo. Mettere i legali in gara è lo strumento più logico per cercare un’offerta combi­nata di qualità e prezzo. Anch’io se fossi un cliente farei lo stesso ».

Concorda il managing part­ner di Shearman & Sterling Domenico Fanuele. « La parola dumping – chiosa – ha un’ac­cezione estremamente nega­tiva perché ha il connotato di concorrenza scorretta. Parlare di dumping avrebbe una logi­ca se ci fosse un benchmark chiaro. Ma ogni studio ha una struttura diversa e un prezzo di servizio commisurato ai co­sti. Per capire se c’è dumping bisognerebbe prima definire il prezzo di un servizio, cosa non definita né definibile ».

Il nodo che rende più cripti­co il tema è proprio l’applica­zione del concetto di dumping a un mercato non regolato come quello legale. Che cosa fa parte del processo di ero­sione del prezzo che porta a un nuovo punto di incontro tra domanda e offerta e cosa, invece, è definibile dumping? Nel mercato di 20 anni fa vi­geva in pratica un regime di monopolio. Solo uno sparu­tissimo numero di insegne era in grado di fare determinate operazioni e i prezzi erano decisi da loro. Poi, però, gli studi hanno gemmato e i pro­fessionisti in grado di lavorare su quelle stesse operazioni si sono moltiplica­ti, rendendo quel servizio una com­modity da affida­re a un advisor, piuttosto che a un altro, sulla mera valutazione del prezzo. Ma questo è dumping? Piut­tosto, sembrereb­be rispondere alla normale dinamica del beauty con­test, che, però, in alcuni casi rischia di diventare una di­namica perversa. Sempre più spesso capita che in studi con centinaia di avvocati – para­dossalmente proprio quelli che hanno i costi di struttura più alti e quindi dovrebbero essere i meno aggressivi dal punto di vista degli onora­ri – ci siano interi team sot­toutilizzati. In questi casi, i prezzi predatori sono applicati per mettere a lavoro professionisti che, in alternativa, rap­presenterebbero solamente una voce di costo nei bilanci delle inse­gne. Come dire, prendere dei man­dati, anche se sot­toprezzati, diven­ta un modo per contenere le per­dite. « Il rischio però – commenta il partner di Simmons & Simmons Giorgio Fraccastoro – è che, abbas­sando troppo le fee, i clienti si abituino a prezzi non soste­nibili, che porteranno inevi­tabilmente ad una riduzione della qualità del servizio. Una volta gettate queste basi sarà difficile tornare a una situa­zione di equilibrio ».


Meno morigerate sono le posizioni raccolte dietro le quinte. Chiamati a commen­tare in via riservata la guerra dei prezzi, alcuni professio­nisti non celano una certa preoccupazione. « Alcuni stu­di accettano contenziosi con bassi onorari per sperare in future consulenze remunera­tive, che spesso non arriveran­no mai. I piccoli studi stanno praticamente scomparendo dal mercato. Restano i grandi nomi, che con questa politi­ca tagliano le gambe a tutti », commenta un professionista. « Il compenso è crollato, cono­sco colleghi che fanno prati­camente lavoro pro- bono. Ma così ci si svende e il servizio perde in termini di qualità », chiosa il partner commentan­do la corsa al ribasso nel setto­re labour e denun­ciando la pratica soprattutto nelle procedure di mo­bilità. Tensioni sul prezzo anche maggiori si regi­strano sul fronte del corporate e del banking & finan­ce, « operazioni che ormai fanno tutti », dove sono denunciate consulenze per meno di 40mila euro su emis­sioni obbligazionarie da milio­ni di euro. Se il dumping è for­te nell’attività ordinaria, meno soggetti a pressioni economi­che sono gli specialisti in set­tori di nicchia. Tra questi, gli esperti del regolamenta­re e dell’antitrust, « dove il cliente sa di rischiare pesante in caso di errore », quelli del restructuring, « dove saper bat­tere sul tempo la crisi di un’impre­sa e le sue com­plessità pone il problema del costo in secon­do piano, salvo poi non essere proprio pagati a causa del fal­limento della società », oppure quelli del penale, « fronte su cui i clienti non sono assoluta­mente attrezzati ».


Nonostante qualche eccezio­ne, la consapevolezza diffusa è che nella commercializza­zione dell’attività legale e in un mercato generalmente così asfittico, gli avvocati saranno destinati a guadagnare meno. I soci di oggi già non godono degli stessi privilegi di quelli di ieri: ci sono molti più salary e si accede alla partnership con po­chi punti equity. E questo è solo uno dei retroscena meno visibi­li dell’erosione dei margini. 


Il dumping visto dai clienti 


La domanda vuole servizi più efficienti e il taglio ai prezzi del servizio legale dovrebbe diventare un forte stimolo per strutturarsi in maniera più ef­ficiente. Gli studi dovrebbero ripensare i loro modelli, attrez­zandosi per recu­perare redditività. È questo il mes­saggio che emerge con forza, fronte clienti, parlando di dumping. Chia­mati a confrontarsi sul tema, i clienti – così come gli advi­sor – ritengono inappropriato par­lare di concorrenza sleale. Secondo l’ex general counsel di MPS Raffaele Giovanni Rizzi« non si tratta di dumping, ma di prezzo di mercato». E prosegue: « Alcuni servizi, ormai, dovreb­bero essere offerti gratuitamen­te al cliente. Si tratta di muo­versi orizzontalmente, offrendo i prodotti commodity a costo quasi zero, per risalire la catena verticalmente, ottenendo man­dati più rilevanti a prezzi equi ».

È dello stesso avviso anche il vice president director legalbusiness affairs and litigation di Ansaldo Sts, Filippo Corsi: «La spending review imposta dai piani di efficientamento azien­dali ha portato all’attenzione delle direzioni af­fari legali il tema del prezzo del ser­vizio e la necessità di internalizzare buona parte del la­voro. Riducendosi la domanda, l’of­ferta deve necessa­riamente diventare più flessibile e il punto d’incontro sul prezzo del ser­vizio si abbassa. Tuttavia – specifica Corsi – sa­rebbe miope la guerra dei prezzi su alcune attività cruciali, come quelle in cui c’è condivisione della responsabilità tra advisor e cliente. In quei casi, il prezzo di­venta quasi garanzia di prestigio e deve essere giusto rispetto alla complessità dell’operazione».


L’associazione prezzo-qualità è rimarcata anche dal direttore de­gli affari legali di Microsoft Sibilla Ricciardi, che sottolinea: «Non si può scegliere un consu­lente perché è il meno caro. Un advisor troppo economico è ga­ranzia di poca qualità. La compe­tenza deve essere pagata, ma non strapagata». Per i clienti, quindi, l’obiettivo non è ricevere un servizio a prezzi stracciati, ma in­dividuare il prezzo più giusto. E un prezzo giusto, se­condo la percezio­ne degli in-house, è quello che non fa gravare sulle aziende i costi del­la sovrastrutturazione o della cattiva gestione degli studi. In altre parole, ci sono costi e co­sti. E le aziende sono disposte a pagare soltanto quelli che pos­sono portare valore aggiunto all’offerta ricevuta, in termini di aggiornamento, di informa­tizzazione del processo, di qua­lità delle risorse professionali impiegate. Invece, « un ufficio con vista sul Duomo o sul Co­losseo non rientra certamente tra i costi che siamo disposti a far gravare sulle nostre casse », sottolinea un general counsel.


Tradotto in altri termini, il suggerimento mosso dalle aziende non è quello di com­petere sul prezzo ma sui co­sti delle strutture. L’assioma è semplice: arrivare all’efficienza strutturale significa riuscire a vendere i propri servizi a prezzi competitivi, pur mantenendo margini di profitto. Infatti, in­dipendentemente da cosa suc­cede nel mercato, una regola non cambia mai: il profitto è dato dalla differenza tra ricavi e costi. Se competere sul prezzo è un male necessario, competere sul costo può essere la chiave per affrontarlo. Una volta rag­giunta l’efficienza di struttura, combattere la guerra sui prezzi – contrariamente a quanto sug­gerirebbe la teoria dei giochi – diventa una scelta razionale. Si soddisfa il cliente pur man­tenendo inalterato il profitto. Se gli altri studi non sono al­trettanto attrezzati si può forse parlare di dumping? No, è così che funziona il mercato.

TAGS

Advant NCTM, Simmons & Simmons, SLA Shearman & Sterling DomenicoFanuele, AlbertoToffoletto, GiorgioFraccastoro, SibillaRicciardi, FilippoCorsi, Raffaele GiovanniRizzi Microsoft, Banca MPS, Ansaldo, Ame­rican Airlines, Twa, Usair


TOPLEGAL DIGITAL

Scopri TopLegal Digital, nuova panoramica sull’attualità del mondo legal, finance e aziendale

 

Sfoglia la tua rivista gratuitamente


TopLegal Digital
ENTRA