di Marco Michael Di Palma
Mi chiedo spesso come i professionisti denominati “salary partner” possano essere considerati soci senza violare il principio di non contraddizione. Questo paradosso cela una domanda più interessante e rilevante: esistono dei veri “partner” in uno studio legale?
La scorsa settimana, Cleary Gottlieb Steen & Hamilton ha annunciato l'inserimento di una nuova categoria di socio non equity. Cleary è diventato l'ultimo grande studio legale statunitense ad abbandonare la tradizionale struttura a livello singolo, in cui tutti i soci detengono una “quota di proprietà”.
Esistono valide ragioni per adottare partnership a due livelli. In un mondo ideale, questo modello si adatta opportunamente alle contingenze consentendo di trattenere avvocati di livello medio non ancora pronti per la promozione al vertice. Sempre in un mondo ideale, le partnership non equity creano più opportunità per diventare socio equity in seguito, concedendo più tempo sia al professionista per sviluppare la propria attività e allo studio per decidere se l'avvocato debba accedere all’equity.
Nella realtà, molti di coloro che diventano salary partner rimangono tali. La nomina non rappresenta un ritardo temporaneo, bensì un ridimensionamento delle aspettative di carriera. Una partnership a due livelli, poi, rende possibile anche la de-equitizzazione. Cleary ha chiarito che non intende né creare uno strato significativo di soci non equity permanenti, né trasferire i soci equity nelle file dei salary partner. In passato, l’insegna aveva anche dichiarato di non voler adottare un livello non equity, in occasione delle modifiche al suo lockstep nel 2020. I piani potrebbero quindi cambiare in futuro.
Il principale motivo dell’estinzione progressiva delle partnership a livello unico risiede nell’ottimizzazione della redditività. L'aumento del numero di soci equity diventa più oneroso quando la redditività dello studio cresce. I soci non equity possono colmare il divario di remunerazione tra un senior associate e il gradino più basso dell’equity. L’attenzione ai profitti spiega perché la categoria non equity abbia raggiunto proporzioni così significative, superando in alcuni studi il numero dei soci equity. Nel quinquennio 2019-2023, i nuovi salary partner, stando alle nomine ufficialmente verificate, sono aumentati del 42,3% (si veda il mio commento “Ritorno del ceto medio”, pubblicato su TopLegal Review, ottobre/novembre 2023).
La riduzione della proporzione di soci equity e l’abbandono della gerarchia piatta evidenziano la crisi del modello associativo e della nozione di “socio” equity. Ma questo si capisce anche dal fatto che uno studio legale non dispone di un capitale permanente con un valore determinato sul mercato.
Come sottolinea la business executive statunitense Janet Stanton, non si può vendere l’equity, né scambiarlo, né utilizzarlo come garanzia per un prestito, né lasciarlo in eredità ai propri nipoti. L’idea che i soci equity siano pagati esclusivamente con i profitti dello studio è un’altra finzione. Gli equity partner sono, in realtà, professionisti la cui retribuzione dipende in gran parte dalla loro capacità di fatturare e generare business, piuttosto che dal loro status di “proprietari”. Si tende a dimenticare, inoltre, che gli studi legali dichiarano la loro redditività senza contabilizzare la parte più significativa dei costi del lavoro. Se lo facessero, la maggior parte avrebbe poco o nessun margine di cui parlare. Alla fine, il vero enigma riguarda, non il socio stipendiato, ma il socio equity senza equity.