Prevenire è meglio che curare. È questa l’idea alla base dei recenti sviluppi in materia di compliance che potrebbe portare, già a fine settembre dopo un decennio di discussioni, alla definizione delle Linee Guida dell’Agcm in materia di compliance antitrust programmes. Si tratta di una serie di iniziative assunte dalle aziende per aumentare la cultura di compliance antitrust internamente, scongiurando il rischio di violazioni e danni a livello sanzionatorio e reputazionale.
Queste iniziative potrebbero aprire una nuova nicchia di affari legati all’Antitrust, practice che negli ultimi tempi arranca. Ma i vantaggi non sono solo per gli advisor esterni. La materia sembra mettere tutti d’accordo, sia legali interni che esterni: i primi interessati ad avere un ruolo sempre più determinante in azienda; i secondi attirati dalla possibilità di creare un nuovo business in salsa 231 che possa compensare, almeno in parte, i danni dovuti all’innalzamento delle soglie.
Da gennaio 2013, la modifica della norma sulle soglie di fatturato ha limitato l’obbligo di notifica alle sole operazioni che soddisfino entrambe le soglie di fatturato previste dalla legge (n. 287/90), e ha prodotto una contrazione significativa dell’intervento dell’Autorità nel campo Antitrust, con il conseguente crollo delle notifiche delle concentrazioni, ridottesi a circa un decimo. Secondo la ricerca condotta dal Centro Studi TopLegal lo scorso marzo, le modifiche delle soglie di fatturato hanno colpito soprattutto gli studi che basavano la loro attività sulle procedure standard in risposta alle notifiche dell’Antitrust e sulle consulenze ordinarie. Nel corso della ricerca c’è chi si è spinto fino al punto di dare delle cifre, segnalando un decremento dell’attività pari al 95%, e di affermare che «chi si occupa solo di Competition e Antitrust è destinato a non sopravvivere sul mercato».
Ma ciò che la legge ha tolto, delle linee guida potrebbero restituire, generando un nuovo business per gli specialisti della materia. Il presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), Giovanni Pitruzzella, lo scorso maggio ha lanciato una consultazione pubblica che riguarda i criteri attraverso i quali si applicano le sanzioni in presenza di violazione delle regole della concorrenza. E, soprattutto, come queste sanzioni possano essere attenuate in caso di adozione e implementazione di programmi compliance in materia Antitrust. Sono, così, ai nastri di partenza le Linee Guida dell’Agcm sui compliance antitrust programmes, il cui scopo di per sé è quello di ridurre le violazioni ed educare (con una sorta di funzione pedagogica) le aziende alla divulgazione interna di una cultura dell’etica.
Se sulla bontà del principio etico sono d’accordo aziende e autorità, più discussi, invece, sono stati i risvolti economici legati all’implementazione o meno dei programmi di compliance. Oggetto del contendere è che le aziende da qualche anno hanno iniziato a richiedere sconti sanzionatori sulla base dell’implementazione del programma di compliance. In altre parole, il punto nodale si riduce a un vantaggio economico legato all’adozione di un programma compliance: sconto sì o sconto no in presenza di una violazione? « Le autorità antitrust hanno opinioni differenti », spiega Simone Pieri, presidente di Icla Italia (In house competition lawyers’ association). E continua: « La Commissione Europea è neutrale; l’esistenza di un programma di compliance non può portare né a mitigare né ad aggravare la sanzione. Ci sono, poi, alcune autorità favorevoli alla mitigazione (Oft/Cma nel Regno Unito, l’Autorità francese, svizzera, rumena), e altre favorevoli alla mitigazione ma anche all’aggravamento della pena se il compliance programme è implementato solo in apparenza per precostituirsi una prova (su questa linea l’Autorità Canadese)».
E l’Italia? «Le aziende Italiane – spiega Pieri – hanno da sempre spinto per ottenere una mitigazione della sanzione. L’Agcm ha seguito il dibattito per qualche anno senza prendere posizione ufficialmente. Sorprendentemente, il 15 maggio ha avviato una consultazione pubblica sulle Linee Guida relative alla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni irrogate dall’Autorità in materia di concorrenza». All’interno delle Linee il punto 23 prevede che «Le circostanze attenuanti includono, a titolo esemplificativo […] l’adozione e il rispetto di uno specifico programma di compliance, adeguato e in linea con le best practice europee e nazionali. La mera esistenza di un programma di compliance non sarà considerato di per sé una circostanza attenuante, in assenza della dimostrazione di un effettivo e concreto impegno al rispetto di quanto previsto nello stesso programma».
Utilizzando la leva dello sgravio dalle sanzioni, a detta di Pieri, gli in house lawyer avranno un’arma per chiedere agli amministratori delegati di implementare i programmi di compliance. D’altra parte, risvolti positivi potrebbero senz’altro seguire anche per gli advisor esterni.
«In alcuni casi, la presenza di un programma aziendale di compliance a fronte della violazione della normativa antitrust accertata, programma evidentemente non rispettato, si è tradotta in circostanza aggravante sull’entità della sanzione», evidenzia Rino Caiazzo, partner di Caiazzo Donnini Pappalardo e associati. Aggiunge, sottolineando: «Predisporre ed implementare un programma di compliance, e svolgere la connessa attività di training interno, è un lavoro time consuming per le aziende che, se fatto in maniera seria, potrebbe generare volumi importanti di lavoro per i consulenti esterni».
In pratica, quindi, i programmi di compliance prevedrebbero un aumento di lavoro sia per l’inhouse sia per il consulente esterno, che dovrebbero lavorare come business partner di un progetto che prevede una fase di risk assessment, la predisposizione di presidi interni e monitoraggio, corsi di formazione, predisposizione di una policy interna, la costituzione di un team antitrust e l’apertura di una hot-line per comunicare potenziali violazioni.
Le premesse per un nuovo business Antitrust, quindi, ci sono. Adesso serve capire se la nuova direttrice segnata dall’Agcm riuscirà a scuotere le aziende italiane dalla tradizionale pigrizia culturale legata ai temi della prevenzione e dell’etica.
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