Mercato legale e innovazione

OLTRE LA CATENA DEI COSTI

La filiera produttiva ha un costo che ha da sempre inciso nella determinazione del prezzo del servizio legale. Oggi, i clienti non sono disposti a pagare i costi di produzione del servizio dovuti alle inefficienze. È ora di sciogliersi dai costi fissi

03-04-2014

OLTRE LA CATENA DEI COSTI

Ne “Il ventaglio di lady Windermere” Oscar Wilde scrive che «un cinico è un uomo che conosce il prezzo di tutto e ilvalore di nulla». Ebbene, questa massima sintetizza la dinamica che da sempre governa il mercato legale, caratterizzato da un fortissimo scollamento tra prezzo e reale valore del servizio.

Per decenni gli studi legali sono andati avanti conoscendo perfettamente il prezzo del servizio – equivalente al costo di produzione addizionato del margine di profitto – senza interrogarsi sulla misura del suo reale valore. Questi tempi sono finiti e il problema della quantificazione del valore del servizio è un interrogativo con cui il settore ha dovuto necessariamente cominciare a confrontarsi. Complice la crisi, oggi i clienti rifiutano di accollarsi i costi di produzione della consulenza esterna. Anche a causa – paradossalmente – dell’aumento dei propri costi dovuti alle politiche di internalizzazione che negli anni hanno portato alcune direzioni affari legali ad assumere dimensioni sempre maggiori. Cresce, quindi, il numero di clienti che guarda con perplessità ai costi fissi sostenuti dagli studi legali – specie le remunerazioni dei professionisti e gli affitti pagati per gli uffici di rappresentanza – che finiscono col gravare sulle parcelle. Ora viene richiesto che il prezzo del servizio sia scollegato dal suo costo, che spesso prescinde dal valore. Ma il cliente – dal canto suo impegnato a ridurre i costi destinati alla consulenza esterna – non è certo più preparato dell’advisor sul tema del valore del servizio. Con la conseguenza che lo scollamento tra prezzo e valore è spesso tutt’altro che superato, con la differenza che il mercato ora va a vantaggio dei clienti, che riescono a strappare mandati a prezzi di saldo.

Si è così innescata tra le insegne una lotta basata unicamente sul prezzo, la cui asticella viene abbassata sempre più. Un processo che rischia di portare gli studi a lavorare in perdita. Il business legale è così entrato in piena fase recessiva, con marginalità sempre più risicate. E, indipendentemente da quanto durerà la crisi, una cosa è certa: ad uscirne fuori sarà un mercato totalmente diverso. È da qui che nasce la necessità di affrontare i costi in maniera strutturale, riconfigurando i processi di lavoro, per riuscire a cambiare il modo di fare business di domani. Infatti, al di là di ciò che succede nell’evoluzione del rapporto tra domanda e offerta, l’equazione alla base di ogni business non cambia mai: il profitto è dato dalla differenza tra ricavi e costi.

Allora, se ragionare nell’ottica del prezzo è un male necessario sia per i clienti sia per gli studi, bisogna diventare più competitivi sui costi di produzione del servizio. L’assioma è semplice: arrivare all’efficienza strutturale significa riuscire a produrre servizi a prezzi competitivi mantenendo inalterati i margini di profitto. Con buona pace per studi e clienti.


Capitale umano: l’outsourcing interno
La principale voce di costo a carico di uno studio è quella relativa al personale. Eppure, sempre più spesso capita che in studi strutturati – con costi di struttura più alti e che dovrebbero cercare più di altri l’efficienza – ci siano interi team sottoutilizzati. Cosa che trasforma i professionisti da risorsa a una voce di costo nei bilanci delle insegne. La risposta immediata al problema è stato il taglio dell’organico e il cambiamento nelle politiche di accesso all’equity (uno dei retroscena meno visibili e meno pubblicizzati dell’erosione dei margini). La maggior parte delle insegne ha agito sia sulla base che sul vertice della piramide: da un lato, lasciando a casa le risorse più junior e limitando l’inserimento di nuove leve; dall’altro, facendo accedere all’equity con pochissimi punti. Nonostante questi tentativi, nel giro di un lustro, secondo quanto stimato dal Centro Studi TopLegal, pur essendo diminuita la leva (passata da un rapporto di 1:6 a un rapporto di 1:4), il profitto medio per equity partner dei primi 25 studi operanti in Italia è sceso del 26%.

È ormai diffusa la consapevolezza che nella commercializzazione dell’attività legale e in un mercato generalmente così asfittico, gli avvocati siano destinati a guadagnare meno. Così come sono destinate a prendere sempre più piede figure legali ibride come i contract lawyer, per i quali è prevista una remunerazione inferiore rispetto a quella di un associate. Abbassare il costo legato al personale e ai percorsi di carriera, però, da solo non basta. Questa via, per quanto ancora percorsa e percorribile da molte insegne, finisce inevitabilmente col diventare un vicolo cieco. A un certo punto, sfoltiti i rami secchi, si rischia di sfociare in politiche di tagli lineari, che non sono più utili all’efficientamento della macchina e che creano tensioni interne. Meglio ottimizzare i costi del personale con strategie di outsourcing interno attraverso l’utilizzo trasversale delle risorse. Qualche tentativo è già stato messo in campo. Un esempio lo ha fornito Freshfields Bruckhaus Deringer. Per allocare al meglio le risorse, la law firm magic circle ha optato per un approccio al team, anziché locale, internazionale, che mette a disposizione delle squadre sovraccariche di lavoro le risorse di quelle delle giurisdizioni dove il carico è minore. In tal modo, si cerca di far lavorare tutti i professionisti di un practice group al meglio delle loro pericolo di un sottoutilizzo delle risorse, che si trasformerebbe in un costo zavorra. Una tale efficienza allocativa potrebbe essere raggiunta anche da studi nazionali. In tal caso, per sfruttare al massimo la risorsa, una possibile risposta potrebbe essere l’accorpamento e la riduzione dei practice group, che rende il professionista utilizzabile su una gamma di prodotti più ampia.


Un servizio a procedure
Agire solo sulla forza lavoro non basta. Bisogna individuare i servizi e renderli più efficienti, attraverso un esercizio di stratificazione. Gli studi saranno chiamati ad analizzare e separare l’offerta in proposte remunerative e non remunerative. Una volta individuati i dipartimenti non-core, e i servizi nei quali i clienti non identificano un reale valore, l’insegna potrebbe procedere alla dismissione dei servizi esternalizzandoli attraverso accordi di partnership con studi legali specializzati in quei settori. Una volta stratificato e diviso sulla base del valore prodotto, il servizio sarà sempre più legato ai risultati. Con l’eliminazione del fattore tempo sia dalla compensazione esterna (prezzo del servizio) sia da quella interna (retribuzione dei professionisti). Fino ad oggi, il prezzo applicato dagli studi legali è stato “cost-plus”, e il costo è fortemente “time-based”.

In altre parole, l’insegna stima il numero di avvocati e di ore necessarie
a chiudere un mandato, aggiunge il margine e stabilisce il costo. Così, il criterio principe per individuare il contributo di un avvocato alla macchina studio è il numero di ore fatturate. Tuttavia, adesso che sono sempre più diffusi gli accordi con i clienti legati a forfettizzazione e success fee, il modello di lavoro deve cambiare. Il tempo, anziché arma in pugno al professionista per fatturare di più, si dovrebbe trasformare in fattore da ottimizzare atraverso il ricorso alla tecnologia e all’automatizzazione dei processi. Se gli studi implementassero maggiormente la tecnologia (meno costosa e non soggetta a lateral hire) nella gestione del lavoro standardizzato, si riuscirebbe a trasformare il modello di business dello studio, passando dal tradizionale modello ad alta intensità di lavoro a quello ad alta intensità di processo.


Workplace: la nuova concezione
Dopo il costo del lavoro, i costi immobiliari rappresentano la seconda voce di spesa in bilancio per gli studi (pari a circa il 10% del fatturato). Secondo una ricerca condotta da Cbre Italia, la possibilità di spostare gli uffici in una nuova sede è un’opzione ancora poco considerata dagli studi legali. A Milano, nel 2013, è stata registrata un’unica operazione: il trasferimento di Ashurst, dalla sede storica di Via Sant’Orsola a quella appena ristrutturata in Piazza San Fedele 2, di proprietà di Beni Stabili. Gli studi legali in Italia, da sempre, sono tra i soggetti più inclini a pagare canoni superiori alla media pur di assicurarsi spazi di prestigio in zone centrali per esaltare l’immagine agli occhi dei clienti.
In alcuni mercati europei, invece, si è iniziata ad osservare una nuova tendenza nel workplace. A Londra Clifford Chance ha preso in locazione uffici moderni a Canary Wharf, mentre Norton Rose ha scelto il quartiere Southbank, spostandosi dalla City. Inoltre, sempre a Londra e ad Amsterdam, alcuni studi hanno scelto l’open space per organizzare in modo più efficiente i propri spazi e favorire l’integrazione tra i vari dipartimenti. In Italia, invece, la maggior parte degli studi predilige ancora il “layout a stanze”.

E la tendenza a scegliere uffici moderni, che consentano un risparmio sui costi totali annui e permettano anche un uso più efficiente dello spazio, è ancora poco diffusa. Come lo è l’opzione di valutare l’affitto di stanze per le riunioni come alternativa ai costi di sola rappresentanza. Piuttosto, i principali studi legali hanno preferito rinegoziare i contratti esistenti a condizioni più favorevoli. La ricerca condotta da Cbre, infatti, ha messo in luce che nell’ultimo anno e mezzo a Milano almeno sei importanti studi legali hanno rinegoziato il contratto in essere per almeno 20.000 mq di superficie. Tuttavia, se – come spesso accade – bisogna guardare l’estero per vedere il volto futuro del mercato legale, allora è presumibile pensare che anche in Italia prima o poi la rinegoziazione degli affitti cederà il posto a una nuova strategia di workplace, che porterà a una progressiva destrutturazione delle postazioni di lavoro fisse.
Un tentativo pioneristico è stato già messo in campo e a farlo è statoLegal grounds, i cui professionisti svolgono quasi tutto il lavoro fuori dagli spazi di un ufficio, avvalendosi della rete. Mentre i costi delle tre sedi fisiche, a Roma, Milano e Londra (e del relativo staff), vengono condivisi con altre realtà professionali. Così che il sito web rimane la principale porta di accesso allo studio.


Dal lato del cliente
Così come gli studi, anche le direzioni affari legali, sottoposte a controlli sempre più serrati sul procurato, subiscono la pressione dei costi. Mentre per i soci degli studi la principale preoccupazione è mantenere inalterato il profit per partner, gli in-house counsel hanno come principale obiettivo la riduzione delle spese legali, a cui spesso sono legati anche gli aspetti variabili delle loro remunerazioni. Nella lotta sui tagli dei costi legali, le direzioni delle grandi aziende hanno cercato di internalizzare quanto più lavoro possibile. Il che ha richiesto una necessaria crescita. Così, le dimensioni raggiunte dalle strutture legali interne più evolute, quelle che hanno spinto la politica di insourcing ai massimi livelli, le ha portate a fare i conti con lo stesso problema affrontato dagli advisor esterni: il taglio dei costi fissi.

Una possibile evoluzione della domanda per le direzioni legali strutturate potrà essere l’outsourcing delle attività legate a prodotti fungibili. Tuttavia, la necessità di tagliare quanto più possibile i costi della consulenza esterna, combinata alla necessità di affidare in outsourcing il lavoro standardizzato, potrebbero condurre a un ulteriore evoluzione del mercato: la trasformazione
dell’avvocato da fornitore a subfornitore di servizi. Fino ad oggi l’esternalizzazione del servizio avveniva nel perimetro del mercato. Ma il settore potrebbe evolvere facendo scattare una stagione di ulteriore razionalizzazione dei servizi da parte dei grandi gruppi nazionali, portando alla nascita in alcuni comparti dell’outsourcing verso società di consulenza non (o non solo) legale.

È interessante notare, infatti, come anche le società di consulenza stiano diventando attori sempre più competitivi e più attrezzati sul fronte legale. Basti citare Kstudio, divisione legale di Kpmg, che in pochi mesi ha messo in campo mosse strategiche per attrezzare la propria offerta alle mutate esigenze dei clienti. Sondando la possibilità di fungere da fornitore in outsourcing di servizi legali, standardizzati e a basso valore aggiunto, per un noto istituto di credito. Ma ad affacciarsi sul mercato con questo tipo di pacchetti low cost non è solo Kpmg, società già strutturata con una divisione legale autonomaal suo interno, ma anche realtà come Cerved, Crif e Prelios. Attori assolutamente nuovi in tema di consulenza legale. Società con un forte potenziale finanziario e un network internazionale, in grado di investire in struttura, informatica e organizzazione più di quanto gli studi legali italiani non abbiano mai
fatto e, forse, non possano fare.

In tal caso gli studi non sarebbero più fornitori, ma subfornitori di servizi, ingaggiati dalle società di consulenza per affiancarle nelle materie coperte da riserva. La necessità di tagliare i costi interni potrebbe inoltre condurre a un secondo possibile scenario: l’esternalizzazione della direzione affari legali. Un esempio lo ha fornito lo scorso luglio la decisione di Emiliano Nitti, dopo 10 anni come General counsel di Clessidra, di lasciare la guida legale del fondo di private equity per fondare lo studio Mauri Nitti con i fratelli Alessandra e Giorgio Mauri, specializzati in litigation. Clessidra ha deciso di non reclutare un altro direttore dell’ufficio legale, ma di continuare ad affidarsi a Nitti per seguire anche tutte le sue controllate al fianco della divisione legale interna, nel frattempo confluita sotto l’operation. Una strategia che anche altre aziende pensano di perseguire per tagliare i costi fissi legati al mantenimento della funzione in-house.

Dal confronto tra advisor e clienti emerge quindi la stessa necessità: trasformare la tensione sui prezzi in tensione sui costi. L’obiettivo non deve essere arrivare a un servizio fornito a prezzi stracciati, ma individuare il prezzo più giusto su cui non gravano i costi legati a sovrastrutturazioni o inefficienze. I costi che dovrebbero concorrere alla determinazione del prezzo sono soltanto quelli che possono portare valore aggiunto, in termini di aggiornamento, di informatizzazione del processo, di qualità delle risorse professionali impiegate. Quindi, la soluzione per rimanere sul mercato non può essere un mero taglio dei costi. Ma bisogna spostare il focus sull’ottimizzazione dei costi, riconfigurando i modelli di business degli studi per renderli fornitori di servizi che generano profitti. Solo riducendo le inefficienze e massimizzando le efficienze delle strutture domanda e offerta potranno superare la barriera dei costi fissi.

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