di Marco Michael Di Palma
I lettori consueti di TopLegal noteranno un ulteriore cambiamento alla nostra analisi dei conti del settore rispetto agli anni precedenti. Da sei anni e nell’interesse dell’informazione, questa testata non pubblica stime sui fatturati degli studi. Un mercato difficile e la crisi dei bilanci hanno ora reso la rendicontazione ancora più problematica. Motivo per cui molti studi hanno preferito non divulgare i propri numeri. Va anche detto che in certi (troppi) casi la rendicontazione non è stata affatto semplice né adeguata. Per consentire quindi una disamina seria e senza inquinamenti, abbiamo deciso di eliminare ogni riferimento alle insegne, facendo riferimento esclusivamente a dati aggregati analizzati per segmento di mercato.
Sebbene tutte le insegne abbiano affrontato le stesse contingenze, non tutte lo hanno fatto con la stessa efficacia. Come è accaduto nel passato, la crisi economica ha accelerato le tendenze preesistenti. Le realtà, che all’inizio della crisi si sono presentate con problemi irrisolti di governance e d’identità, ora subiscono maggiori pressioni competitive. Con il risultato che, per gli studi che si muovono nella fascia alta e medio alta del mercato, si sta allargando il divario tra il gruppo di testa e gli inseguitori. Secondo i numeri dichiarati e non comprovati, le perdite del fatturato annuo sarebbero giunte fino al 30%. In tutta probabilità, il calo in alcuni casi avrà superato il 40 per cento.
Se volessimo considerare un unico dato capace di sintetizzare i cambiamenti avvenuti negli ultimi 12 mesi, basterebbe concentrarsi sulla capacità collettiva delle compagini di generare valore. Il dato più eloquente in questa prospettiva deriva dal fatturato medio per professionista (Rpl), sceso in media dell’1,6%. Al di là del dato generalizzato per tutto il campione, si registrano contrazioni notevoli proprio tra i modelli più produttivi: fino a -12,2% per le boutique fiscali e addirittura -16,7% per alcuni tra gli studi full service più blasonati del Paese.
Per approfondire le tendenze sulla produttività, bisogna considerare la differenza tra il numero di ore lavorate, il numero di ore fatturate al cliente e quelle effettivamente corrisposte. Ebbene, sia il tasso di utilizzo che il tasso di realizzazione registrano trasversalmente il segno meno. Le ore fatturate sono diminuite del 2,2%, mentre le ore realizzate si sono abbassate del 3,3%. Significa che la produttività complessiva dei maggiori studi in Italia ha subito una perdita complessiva di 5,5 punti rispetto all’anno fiscale precedente.
Le difficoltà di realizzazione sono direttamente correlate alle condizioni del mercato. I clienti in difficoltà sono maggiormente propensi a scontare le ore da pagare per motivi di opportunità. Dietro la contingenza, come abbiamo già intimato, possono nascondersi inefficienze strutturali: il disallineamento dei prezzi del servizio rispetto al mercato come anche le penalizzazioni dovute a prestazioni non all’altezza delle aspettative.
Le ragioni di questo quadro poco confortante vanno cercate in parte nelle scelte degli studi durante l’ultimo anno per far fronte alla crisi. Si delineano sostanzialmente tre reazioni.
La prima ha guardato al dimagrimento dello studio, un processo portato avanti al contrario perché avviato dal basso. I tagli alle squadre hanno riguardato innanzitutto il personale di supporto e i giovani collaboratori. Solo dopo, una volta esaurite le possibilità di abbattere i costi fissi, sono stati messi sotto i riflettori i soci e il deficit tra valore originato e utili prelevati. Motivo per cui, nel 2021 sono aumentate le uscite degli associati. A metà maggio, le uscite sono state il 55% in più rispetto allo stesso periodo nel 2020. Per la prima volta dall’inizio della crisi, sono state confermate politiche proattive per affrontare il problema dei soci non performanti. Gli studi internazionali per primi hanno preso questa strada in Italia. L’approccio potrà generalizzarsi. La difesa dell’equity, rimandata nel 2020, ora è diventata improrogabile.
La seconda risposta è stata l’attendismo e l’immobilismo. O perché l’assenza di una leadership forte ha reso impossibile imporre una qualsiasi linea strategica a favore del cambiamento, o perché si è pensato bene di non disturbare gli equilibri interni e le posizioni di rendita.
Infine, l’attivismo e l’opportunismo a favore dell’espansione numerica e geografica. Analogamente, ma quasi solo nelle retrovie del mercato, si sono viste integrazioni per accelerare il ridimensionamento delle compagini e concentrare le figure più profittevoli degli studi. Il mercato aspetta ancora il consolidamento degli studi grandi e medio-grandi, se mai si potessero trovare la spinta necessaria e le ricette giuste per compierlo.
Un giorno toccherà a qualche sociologo spiegare il paradosso per cui, seppur comunicando sempre di più, gli studi sono riusciti a comunicare sempre di meno. Per il momento, il comparto legale potrebbe assomigliare alle grande imprese che, in tempi di crisi, fanno la fila per uscire da Piazza Affari e dalla sfera pubblica. Ma questo è un altro discorso.