Scegliere i giovani talenti migliori. Formarli come professionisti in grado di muoversi autonomamente nel mercato legale. E trasformarli in leve di business, capaci di attirare nuovi clienti e mandati. È il circolo virtuoso che ogni studio dorrebbe innescare quando arruola tra le sue fila un nuovo praticante. D’altra parte, diventare socio è il sogno che ogni collaboratore coltiva fin dall’ingresso in uno studio. Eppure, il mercato negli ultimi anni ci ha mostrato una realtà diversa, in cui l’accesso alla partnership mediante un percorso di crescita interna non è la norma.
Per capire la propensione delle insegne a investire sulla formazione e crescita delle risorse, TopLegal ha deciso di condurre un’analisi sui primi 10 studi che compongono l’indice TL25, vale a dire un paniere ristretto e rappresentativo delle principali insegne operanti in Italia, elaborato in occasione dell’annuale indagine sui fatturati (si veda il numero giugno/ luglio 2017 di TopLegal Review). A tutti gli studi del campione è stato chiesto di fornire i dati riguardanti il numero complessivo di professionisti, il numero complessivo di soci e, all’interno di quest’ultimo gruppo, il numero di soci provenienti da crescita interna. All’indagine quantitativa, è stata poi affiancata la raccolta delle testimonianze di chi è cresciuto all’interno degli studi e si è formato nella loro cultura fino a diventarne partner.
L’analisi
I numeri non sono incoraggianti. Fatta eccezione per Maisto – in cui un quinto dei professionisti è socio e, di questi, il 90% proviene da crescita interna – il percorso di partnership sembra essere tutto in salita. L’analisi svolta da TopLegal rivela che, nella maggior parte dei casi, gli studi allargano la partnership per via orizzontale, mediante lateral hire. Il dato è trasversale a tutto il campione che, seppur ristretto, può essere considerato rappresentativo poiché raccoglie una selezione degli studi più strutturati operanti in Italia, tanto italiani quanto internazionali. Pochissimi professionisti riescono a raggiungere la vetta e, ancor meno, sono quelli che riescono a crescere all’interno dello stesso studio. Facendo una media dei dati comunicati, la leva è di circa 1 a 6, quindi un partner ogni sei professionisti. Entrando nel merito della composizione della partnership, nessuno studio - salvo Maisto - registra un tasso di crescita interna superiore al 50 per cento. Una soglia critica, raggiunta soltanto da Tonucci, che su 20 soci ne conta 10 formatisi nella sua scuola. Seguono Hogan Lovells, Gatti Pavesi Bianchi e Lombardi Segni, in cui circa un terzo dei soci proviene da crescita interna. Mentre per gli altri la percentuale scende. Il primo motivo è di natura strutturale.
Oggi il settore ha raggiunto un certo livello di saturazione: l’offerta di servizi legali specializzati in diritto d’impresa, a differenza di un ventennio fa, abbonda. Con la conseguenza che la domanda è parcellizzata su più insegne. Gli studi, quindi, non hanno bisogno di strutturarsi e crescere, ma piuttosto tendono a consolidarsi, a generare lavoro a partire dagli stessi clienti e, spesso, favoriscono una crescita di tipo orizzontale, con i lateral hire di soci provenienti da altre insegne, utili ad acquisire nuovi clienti o a sviluppare una nuova practice. E, qui, alla ragione strutturale si accompagna quella opportunistica che permea la cultura legale e rende il mercato ad alto tasso di mobilità. Il problema è che l’alta incidenza di passaggi laterali fa sì che le compagini siano sempre più transitorie e riduce i candidati interni alla partnership perché molto spesso i professionisti senior che si sono formati all’interno di un gruppo e sotto l’ala di un socio tendono a seguirlo nel nuovo studio. E il circolo così si alimenta a tutto svantaggio dello studio. Infatti, se è vero che si tratta di un mercato mobile e saturo, è altrettanto vero che a nessuno studio piace formare risorse eccellenti per poi vederle imboccare l’uscio.
Per leggere l'articolo completo, scarica il numero di febbraio/marzo di TopLegal Review
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