editoriale

Perchè gli studi inseguono il buon governo

La gestione formale per recuperare la sostenibilità rappresenta un punto di discontinuità con la logica del passato

30-01-2024

Perchè gli studi inseguono il buon governo

 

di Marco Michael Di Palma

Sulla base della correlazione (reale o assunta) tra buon governo e sviluppo economico sostenibile, gli studi in Italia come all’estero stanno rivedendo il proprio sistema di regole interne. Come e quanto remunerare i soci è il tema all’ordine del giorno dopo le eccezionali ma irripetibili condizioni di mercato durante e dopo la pandemia. Si parte dalla certezza di non poter più contare sull’aumento di anno in anno delle tariffe e della domanda di assistenza. Le aspettative in calo hanno indotto a riflettere sul cambiamento, dando un forte impulso alla necessità di ridefinire gli obiettivi condivisi. Anche se mettere mano alla partecipazione degli utili è compito difficile. Ogni cambiamento tende a generare nuove sfide.

All’inizio del XX secolo, i grandi studi statunitensi aderivano al modello Lockstep che commisurava la quota dei profitti all’esperienza e l’anzianità. Questo modello favoriva la collaborazione e la fiducia tra soci, ma le pressioni finanziarie durante la seconda metà del XX secolo costrinsero le law firm a propendere verso le prassi burocratiche tipiche dell’impresa. Dando priorità ai profitti, gli studi abbandonarono la formazione generalista per rendere produttivi i collaboratori il prima possibile, e introdussero il ruolo di socio non equity. Con l’arrivo dei differenziali retributivi e la mobilità dei soci negli anni Settanta nacque il modello Eat-what-you-kill. I criteri di esperienza e anzianità furono sostituiti dal contributo individuale ai ricavi. I soci che generavano più affari e attiravano più clienti ricevevano una quota maggiore dei profitti.

Poiché premia le prestazioni oggettive, il sistema Eat-what-you-kill è considerato più meritocratico. La sua semplicità richiede una gestione minima, motivo del suo successo in Italia. Tra gli svantaggi, la concorrenza tra soci e l’accentramento del potere nelle mani di pochi singoli in grado di condizionare lo studio, al quale sono legati solo da incentivi finanziari. L’uscita di un socio di peso rischia di far precipitare l’associazione verso il crollo. Inoltre, il modello Eat-what-you-kill è esposto ai mutamenti del mercato, ma lo è anche il Lockstep, con l’ulteriore svantaggio che mentre il primo penalizza il singolo, il secondo abbassa anche i profitti degli altri.

Negli ultimi decenni, gli studi hanno sperimentato modelli ibridi per evitare gli scompensi di entrambi i sistemi. Persistono tuttavia problemi intrinseci.

In termini generali, remunerare i soci interamente o in gran parte con gli utili a fine anno farà sempre prevalere gli interessi personali e a breve termine. Risulta pertanto problematico cambiare le politiche di remunerazione partendo dal presente. Lo dimostra un dato tra le pieghe della recente indagine condotta dall’IBA su oltre 100 studi legali in tutto il mondo, e che fa emergere tutta la distanza tra l’auspicio di discontinuità e la sua realizzazione. I rispondenti all’indagine IBA hanno individuato nella mancanza di responsabilità dei soci l’ostacolo più rilevante al cambiamento e la sfida che meriterebbe maggiore attenzione da parte degli studi. Ciononostante, tra le priorità individuate dagli stessi rispondenti per migliorare le politiche sulla partecipazione agli utili, l’ampliamento della responsabilità dei soci, necessario al cambiamento, risultava all’ultimo posto.

 Se i vertici degli studi sono tornati sul tema della gestione e dell’autogestione dei soci, significa che cercano atteggiamenti e comportamenti diversi da quelli che hanno finora premiato e che hanno favorito i particolarismi. Un socio disallineato rispetto agli interessi del proprio studio nonostante ne sia comproprietario risulterebbe difficilmente concepibile in un’impresa, come osserva l’autore del rapporto IBA, Moray McClaren. Motivo per cui si delibera sugli assetti ispirati all’amministrazione formale dell’impresa e all’obiettivo di applicare nuovi parametri non finanziari per valutare le prestazioni dei soci, a cui sono date responsabilità allargate. Superando ulteriormente in tal modo quella “terza logica della professionalità,” come la definiva il sociologo Eliot Friedson, attraverso la quale si rivendica la capacità di organizzare e controllare il proprio lavoro senza direttive esterne né pratiche di controllo alcune.

Dall’arrivo del Magic Circle londinese negli anni Novanta in poi, gli studi italiani sono diventati più simili alle imprese, ma senza istituzionalizzarsi. Il perdurare del potere gerarchico ha impedito la nascita di una buona governance. Un esempio su tutti: la scatola nera in cui per molte associazioni continuano a essere racchiusi i criteri per l’accesso all’equity e i dati di bilancio. Non tutti vorranno o potranno rompere con il presente, ma alcune insegne potrebbero ora raggiungere la frontiera della governance al pari dei concorrenti internazionali. Con buona pace della difesa della professione. Il socio chiamato a realizzare il potenziale della squadra, a migliorare l’organizzazione e i processi interni, e a sostenere attivamente i valori e la cultura del proprio studio assomiglierà poco a chi ha come unico scopo la vendita di conoscenze.


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