di Marco Michael Di Palma
Un sistema economico maturo regge sull’informazione e sulla consapevolezza dei suoi attori. Informazione e consapevolezza, a loro volta, dipendono dalla disponibilità dei dati (numeri, indicatori, parametri, criteri, mediani, ecc.), frutto di contenuti, approfondimenti, analisi, ricerche, indagini o comparazioni. In tutte le sfere dell’economia, si stabilisce la dimensione oggettiva, quantitativa, misurabile delle attività per orientare le scelte e le decisioni. Tutte, sembra, tranne per la categoria dei liberi professionisti.
Certamente non mancano osservatori e rapporti sulle professioni. Degli iscritti agli albi conosciamo le caratteristiche sociodemografiche, le tendenze del reddito e della previdenza, l’impatto del Covid-19 e lo smart working, la formazione, l’accesso alla professione, l’abbandono della professione, ecc. Sappiamo poco o nulla, invece, del mercato che essi servono. L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura, tentando una “prima indagine” sul “mercato dei servizi legali”, illumina: “In prospettiva, i temi giuslavoristici e fiscali, le normative sugli appalti, la contrattualistica tra clienti e fornitori continueranno a rimanere centrali per le attività d’impresa e saranno oggetto di una domanda di servizi specialistici anche di tipo legale”. Tali genericità contrastano, per esempio, con la letteratura puntuale rivolta ai 17mila private banker italiani dove si parla di evoluzione della ricchezza finanziaria, quota di penetrazione del private banking, benchmarking sui principali Kpi del servizio, tutto accompagnato da analisi territoriali e internazionali. Un lavoro, come recita la stessa associazione di categoria, che va a “migliorare il servizio presso gli stakeholder”.
Fa qualche differenza tutto questo? Penso di sì. La penuria di dati, di contenuti e di consapevolezza alimenta il forte disallineamento tra domanda e offerta. Dall’ultima analisi del Centro Studi TopLegal sulla competitività degli studi legali, emerge tutta la portata di questo disallineamento. Il 70% delle società sondate è propensa a cambiare studio legale per l’inadeguatezza del servizio erogato.
Questo dato si spiega con le reiterate indagini realizzate sui committenti che hanno stabilito i cinque criteri ritenuti più importanti nella scelta del consulente esterno. Per ordine di rilevanza, questi critieri sono: il rispetto dei tempi, la credibilità e autorevolezza, la conoscenza del settore, il rapporto qualità/prezzo, infine, la relazione e vicinanza al cliente. Misurati con questi parametri, i primari studi legali in Italia non brillano. In ordine decrescente, il 63% raggiunge o supera le aspettative dei clienti per il rapporto qualità/prezzo. Servirebbe capire se questo traguardo sia merito dell’efficienza degli studi o della stretta sui budget applicata dai committenti (non abbiamo indicazioni precise ma, in base alla somma di giudizi, sembrerebbe che la seconda delle ipotesi sia la più probabile). La proporzione che perviene a stabilire un rapporto soddisfacente con il cliente si attesta al 38 per cento. A possedere una sufficiente credibilità e autorevolezza, invece, è solo il 25 per cento. Meno ottimale ancora, la conoscenza del settore del cliente detenuto dal 13% degli studi. Secondo il parametro più importante, infine, solo il 6% degli studi legali rispetta adeguatamente i tempi.
Negli anni, ho conosciuto realtà che avevano raggiunto un punto di crescita limite. Escludendo la conservazione dell’esistente, si poneva inevitabilmente la sfida dell’espansione, mossa piena di rischi e a cui gli avvocati, per loro natura, sono estremamente sensibili. Per gestire il rischio, servivano dati e indicatori, quindi, un lavoro scientifico di approfondimento. Solo interrogando il mercato si arriva a individuare nuove opportunità e tendenze future, a ottimizzare la propria reputazione e ad aumentare la presa su clienti e potenziali tali. Questa prospettiva può provocare un forte evitamento. Ricordo anni fa un socio fondatore sostenere che, dopo tutto, non serviva confrontarsi con il mercato perché già sapeva cosa volessero i suoi clienti, ovvero, altri cinque avvocati come lui. Quella della clonazione è stata la più irreale delle risposte, ma misurarsi con il mercato genera resistenza. Perché?
Ci sono diverse spiegazioni. Primo, chi può vivere di rendita di posizione crede di poterlo fare per sempre. Secondo, subentra spesso il timore di vedersi sminuiti o squalificati nel sollecitare il giudizio dei clienti (in realtà, questi ultimi invariabilmente premiano lo sforzo per approfondire le loro esigenze e migliorare il servizio). Terzo, per deformazione professionale, il principio della riservatezza viene esteso all’intero modo di operare degli avvocati. Quarto, tutte le insegne italiane sono nate quando le conoscenze per gestire e organizzare l’attività professionale erano già state sviluppate molto prima altrove. Adeguarsi ai modelli esistenti ha impedito che prendesse radice una cultura dello sviluppo e della ricerca. Ultimo, mancano prospettive e lungimiranza dei soci dovute a una visione corporativa che predilige il servizio artigianale, privo di ausili scientifici o tecnologici e frutto del solo ingegno giuridico.