di Marco Michael Di Palma
Non c'era bisogno di una nota inviata a fine anno da parte del Consiglio Distrettuale di Disciplina della Corte d'Appello di Milano (Cdd) per capire quanto sia ormai abissale la distanza tra autorità forensi e avvocati d’impresa.
Da un impulso originario e nobile era nata nell’era premoderna la corporazione che il filosofo tedesco Hegel definiva una sorta di seconda famiglia. Le componenti di questa famiglia si riconoscevano per il valore comune della dignità e della solidarietà, argine contro le disuguaglianze risultanti dal sistema economico impersonale del mercato. La difesa della categoria oggi, invece, ha come principale obiettivo la negazione della realtà per cui ogni forma di pubblicità risulta sempre o solo comparativa. Si stava meglio quando tutti erano anonimi e senza possibilità alcuna di evidenziarsi rispetto ai colleghi. Tutti uguali allegramente sulle Pagine Gialle.
Si rischia di perdere la presa sulla realtà a forza di disconoscerla. Motivo per l’astrusità delle posizioni ordinistiche contro i premi agli avvocati. La missiva nebulosa del Cdd permette un orizzonte interpretativo talmente largo che finisce per concedere l’opposto di quello che vorrebbe affermare.
Sarebbero censurabili i professionisti che pubblicizzano i propri premi soprattutto per un motivo. I proclami di vittoria non sarebbero né corretti né veritieri poiché non guidati da reali valori bensì «il risultato di un rapporto anche di carattere economico tra la società che pubblica i post e gli studi legali beneficiati». In particolare, tali premi verrebbero conferiti senza essere «oggetto di una valutazione in termine di trasparenza». Il rimprovero è serio ma alquanto vago. Una trasparenza che viene meno consente di desumere una trasparenza perlomeno possibile.
Generalizzando invece sul sistema commerciale di tutti gli operatori del comparto, tutti votati senza distinzione all’opacità, si arriva a tagliare, come avrebbe amato fare Caligola, una sola testa con un solo colpo. La certezza della trasparenza non risulta così vitale. La nota rischia di cascare nello stesso occultamento denunciato perché il diavolo sta nelle congiunzioni: i premi «comunque provengono da soggetti istituzionalmente non abilitati ad una valutazione della nostra capacità professionale». Comunque. Con questa formula risolutiva e conclusiva, si chiude un'esposizione che risolutiva e conclusiva non è. Si riservano le competenze per giudicare le prestazioni degli avvocati ai soli iscritti all'Ordine degli avvocati. Viene da chiedersi su quali basi legittime potrebbero mai i clienti non abilitati prediligere un consulente legale piuttosto che un altro. Solo gli Ordini sono preposti a consegnare premi. Come tra l'altro già fanno. È vero che i premi dell’Ordine si limitano a riconoscere gli anni di servizio, bene o male trascorsi, ma questo fa poca differenza. Quando il sommo valore è l'abilitazione istituzionale, essere storicamente iscritti non può che risultare meritevole.
Le posizioni ordinistiche sono anacronistiche ma non per questo il sistema dei riconoscimenti dedicati agli avvocati può esimersi da autocritiche. La crisi è sotto gli occhi di tutti e non solo per i premi "farlocchi" denunciati dagli indignati della categoria che insorgono coralmente in questi giorni sui social. Ci troviamo di fronte a una verità ovvia e appariscente: l'inarrestabile proliferazione dei premi. Sappiamo tutti che gli avvocati d’impresa italiani sono stati presi d’assalto come nessun altro gruppo di professionisti. Come se non bastasse, sarebbero in arrivo ulteriori iniziative da parte di nuovi attori italiani e stranieri. L'aspirazione alla stima e alla considerazione si rivela di un'elasticità illimitata, come direbbero gli economisti. (Full disclosure: TopLegal premia gli avvocati d’impresa in Italia dal 2007.)
La nota del Cdd pone due problemi reali anche se, scindendoli, li pone in termini sbagliati.
Una valutazione trasparente del premio cosa richiederebbe? Primo, un regolamento pubblico e accessibile a chiunque. Secondo, la partecipazione nei processi di selezione di figure terze riconosciute (oltre che istituzionalmente abilitate) per valutare coscienziosamente le candidature secondo standard validi e oggettivi. Terzo, l'indipendenza per rendere ogni gara il più possibile esclusiva perché una gara vera premia la rarità (la gara del Dronte è un'altra cosa). Infine, il sommo principio di autoregolamentazione, pena le conseguenze pregiudiziali alla reputazione di premiati e premianti: si paga per partecipare alla gara, mai per vincere.
Il potere d'investitura di chi premia da dove proviene? L'abbiamo già detto, dalla reputazione, inteso nel suo doppio significato: dal paragone tra più società premianti concorrenti, ma anche come bene che sorge nella relazione tra chi premia e chi viene premiato. Poiché la reputazione stabilisce distinzioni nel mercato, l'erosione della reputazione dovrebbe comportare l'erosione del potere d’investitura e il deprezzamento del premio. Altro discorso poi se il danno di reputazione si rileva solo sul piano dell'accertamento del fatto ma non degli effetti.