di Valentina Magri
«Le imprese italiane sono ancora troppo legate al sistema bancario, così come il legislatore italiano». Così Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi (Associazione italiana private equity e venture capital), ha aperto il convegno annuale 2025 dell'associazione. Gli ha fatto eco Federico Freni, sottosegretario del Mef (Ministero italiano dell’economia e delle finanze), che ha rimarcato come il bancocentrismo (inteso come considerazione del debito bancario come unica strada per la crescita delle imprese) abbia creato danni nell’impostazione finanziaria degli imprenditori.
Regolamentazione e sistema finanziario
«Finora la regolamentazione non è mai stata alleata del sistema finanziario: talvolta è stata al fianco, talvolta indietro. Nessuno si è mai occupato di misure tarate per le pmi, finchè il coronavirus non ci ha risvegliati. Ci siamo accorti che bisognava creare strumenti più adeguati alla nostra dorsale economica, ma molte frittate ormai già state fatte, come la nozione europea di pmi, elaborata nel 2003 anche con voto dell’Italia, senza porsi problemi come, ad esempio, il fatto che le sgr sono considerate imprese collegate perché i fondi non hanno personalità giuridica». Freni inoltre ha ricordato che la Lp (Limited partnership) non è conosciuta e non è applicata in Italia come in altri paesi Ue. «Occorrono aggiustamenti del sistema, perché ogni cura va tarata sul malato, per cui non possiamo ignorare la reale struttura della nostra economia: un capitalismo familiare che soffre passaggio generazionale e un’allergia alle regole della corporate governance, che rendono molto difficile apertura del capitale e concessione del credito», avverte Freni. È pertanto necessario individuare gli strumenti esatti e comunicare vantaggi dell’apertura al capitale privato per far crescere le pmi. Anche perché non si passa dall’impresa familiare alla quotazione, ma ci sono dei passaggi intermedi, e l’apertura al capitale privato è uno di questi. «Il legislatore deve favorirli e le imprese del settore devono pungolarlo in tal senso», ha sottolineato Freni.
M&A in Italia e nel mondo
Stefano Cervo, partner di Kpmg ed head of private equity, ha tracciato un quadro dell’M&A in Italia, ricordando che nel 2024 il valore dei deal annunciati a livello globale è aumentato dell’8%, ma il numero di transazioni si è contratto del 12,5%, a quota 53 mila. Ciò implica un ritorno dei mega-deal, che sono stati 99. Nelle operazioni di M&A, è maggioritario il peso dei settori tecnologia, energia e settore finanziario. Un quarto delle transazioni globali è generato dal private capital, con numero di deal sceso del 25,1%. Anche nel private capital è in atto un ritorno delle grandi operazioni, con maggiori disponibilità di debito: ciò è riflesso dall’aumento dell’83% dei finanziamenti sindacati per Lbo (Leveraged buy-out). Il 77% dei deal sono stati di dimensioni superiori al miliardo di dollari. Tecnologia, servizi finanziari e industriali sono stati i settori più coinvolti dalle operazioni dei fondi di private capital, che hanno circa 29 mila asset in portafoglio nel mondo. Il valore di carico degli asset è di oltre 3 trilioni, in quanto le operazioni sono state condotte con multipli elevati. «Questo ha reso gli operatori molto selettivi sulle exit, il cui ritmo non segue aumento degli asset in gestione. Il rapporto tra distribuition e paid in capital, infatti, nel 2024 ha raggiunto il minimo rispetto a periodo pre-Covid e c’è una pressione sulla liquidità. Questo si riflette sul fundraising, che nel 2024 per la prima volta si è contratto in termini di ammontare e volumi», evidenzia Cervo.
Nell’area Emea (Europe, Middle East and Asia) sono saliti valori e volumi degli investimenti, nonostante l’incertezza politica in vari paesi. Il numero di fondi è il più basso del decennio. Il fundraising andato bene in Italia ma male a livello Emea. «Da un lato, oggi subiamo una volatilità più elevata che nel 2024 a causa di vicende geopolitiche con implicazioni macroeconomiche. Dall’altro, il taglio dei tassi potrebbe però creare contesto favorevole agli investimenti, per cui nutro un moderato ottimismo per il 2025», ha detto Cervo.
Il private capital in Italia
Anna Gervasoni, direttrice generale di Aifi e rettrice della Liuc (Libera Università Cattaneo), ha ricordato che nel 2024 in Italia sono stati investiti 20 miliardi nelle imprese: 15 miliardi in equity (private equity e venture capital) e 5 miliardi in debito. «Sono numeri in crescita, ma ancora piccoli rispetto alle esigenze delle imprese. Nel 40% dei casi i disinvestimenti o exit sono andati a favore di operatori industriali», ha affermato Gervasoni.
La metà delle operazioni di private debt è stata effettuata da aziende partecipate dal private equity.
Il ticket medio degli operatori domestici di private equity è stato di 16 milioni di euro, per cui sostengono le pmi italiane. Le operazioni più grandi invece sono chiuse dagli operatori internazionali, che investono ticket maggiori: nel caso dei fondi Usa, 104 milioni. Gli operatori francesi hanno ticket medi di 30 milioni di euro, per cui presidiano il mid-market.
Mentre prima public e private asset erano due mondi separati, mentre ora si intersecano: gli asset manager investono anche nei private asset, precisamente 35 miliardi di euro. I principali gestori attivi nei public market entrati nei private market sono: Generali; Eurizon; Fideuram Intesa Sanpaolo – Private Banking; Anima Holding; Azimut Holding. Anche se i principali operatori di private capital sono esteri: Blackstone, Kkr, The Carlyle Group, Eqt, Tpg, Cvc.
In proposito, Davide Bertone, ceo e direttore generale di Fondo Italiano d’Investimento (FII) sgr, ha chiosato: «Prima il private equity era una cottage industry di pionieri. Oggi è una parte del grande settore dell’asset management. Questo implica un cambiamento del modo di lavorare, per cui ci si interroga su cosa chiedono gli investitori e si ascoltano le loro esigenze in termini di strategie di investimento». Giovanni Davide Orsi, managing director, head of relationships and partnerships, private equity di Psp, ha messo in guardia dal rischio che l’entrata del private equity nelle società di asset management è che le sgr diventino più fabbriche di commissioni che fabbriche prodotto.
Gli operatori di puro private equity nel 2025 erano il 55%, ora sono il 34% perché hanno diversificato l’attività. Gli operatori di venture capital sono cresciuti dal 5% al 15%. Per quanto concerne le operazioni in Italia, il 70% è concentrata sulle imprese di 20-500 dipendenti. Con ottimi risultati: i rendimenti di private equity e venture capital in Italia mediamente sono stati del 19% nell’ultimo decennio.
Giorgio Gobbi, responsabile della sede di Milano di Banca d’Italia, ha evidenziato il ruolo del private capital come motore dell’innovazione, in quanto gli investimenti in attività immateriali sono correlati al peso del private equity e venture capital nelle imprese, essendo investimenti troppo opachi per essere finanziati da banche e imprese. «Il private equity è fonte di capitali più pazienti per innovazione rispetto alla borsa. Ma forse non sono più così pazienti, perché sia gli Usa che l’Italia hanno problemi di produttività, che è legata all’innovazione», ha detto Gobbi. Infine, Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cdp, ha ricordato che quest’ultima è diventata azionista di Euronext per integrare mercati pubblici e privati e favorire l’accesso ai capitali da parte delle imprese.