Commento

Quando 50 avvocati non bastano

Mentre i clienti chiedono più aggregazioni tra studi legali, le piccole insegne badano al potere. L’aumento delle alleanze ne è la dimostrazione

30-05-2019

Quando 50 avvocati non bastano

 

di Marco Michael Di Palma

 

«Gli studi con meno di 50 avvocati hanno poche ragioni di esistere». Così ha sostenuto in queste settimane un general counsel italiano, prendendo di mira le insegne che lamentano (o vantano come distinzione) di avere poco da “mettere sul piatto” in termini di servizi trasversali integrati. Il general counsel ha altresì lanciato un appello a favore delle aggregazioni per eliminare, a suo dire, «l’attuale e anacronistica esistente polverizzazione di studi ed expertise tipicamente nostrana». 

Che l’offerta dei servizi legali si caratterizzi per la notevole frammentazione lo sanno tutti. I numeri rispecchiano con chiarezza la realtà delle cose. Gli studi legali in Italia con più di 50 professionisti sono circa una cinquantina e la metà di queste insegne non supera le 80 unità. Guardando al fenomeno da un’altra prospettiva, i 50 studi più grandi del Paese raggruppano circa 6.000 professionisti legali e tributari. Numero imponente considerato in se stesso ma che pesa solo per il 2,5% dell’avvocatura iscritta alla Cassa forense (anche se si calcolasse che tra questi 242mila iscritti, forse un terzo — 80mila — fosse un avvocato d’impresa, il dato salirebbe solo al 7,4%.)

Le ragioni della frammentazione sono da cercare nelle pieghe degli incentivi del consulente esterno che si trovano contrapposti a quelli delle aziende. I clienti hanno un evidente interesse perché gli studi si strutturino maggiormente, così da sfruttare sinergie e scale d’economia che possono tradursi in parcelle più contenute. Da parte loro, gli studi piccoli e medio-piccoli rimangono espressione del proprio fondatore o, tutt'al più, di un addensato nucleo di soci. Queste figure, avendo creato con grande sacrificio un (seppure ristretto) centro di potere, non guardano per nulla con favore all’ipotesi di condividere con altri i propri clienti e utili. Anzi, la mancanza di grandi studi va a tutto vantaggio delle boutique per cui le specializzazioni frazionate dei concorrenti fanno proliferare il lavoro per corrispondenza. Non sono da meno, in quanto freno alla crescita, le resistenze in studio a gestire un maggior numero di professionisti. Oltrepassato il solito “sodalizio tra alcuni amici con comune professionalità e stima reciproca”, serve uno statuto capace di superare l’ordinario (condivisione dei costi e margini). I soci abituati a esercitare la professione in ambiti lontani dalle logiche da grande studio strutturato rifuggono dall’idea dello studio-azienda. Tuttavia, l’espansione crea nuove esigenze, specie il bisogno di regole interne e strutture di controllo e di amministrazione.

Nonostante le riluttanze, aumenta la consapevolezza della necessità di cambiare passo. I clienti sottolineano il loro svantaggio, come ha fatto capire il summenzionato general counsel, ma gli stessi studi rischiano di trovarsi condizionati dall’offerta ristretta di servizi e dall’incapacità di sfruttare le sovrapposizioni con altre practice che potrebbero fare da traino. L’assenza di servizi diversificati crea rischi con un mercato in flessione. Non potendo disporre di sinergie interne, viene inoltre meno la possibilità di proporsi come consulenti in maggiori ambiti nei confronti dei clienti già esistenti. 

A questi mali esistono tre rimedi. 

Il primo e forse il più ovvio è quello di ritagliarsi una nuova clientela. Ma intercettare nuovi clienti richiede investimenti importanti, sia in termini economici che in termini di tempo da dedicare per coltivare le relazioni, mezzi non sempre alla portata dei piccoli studi. Significa anche dover aggredire un mercato già presidiato da concorrenti forti di rapporti consolidati e per cui non si può fare altro che confidare in un cambiamento al vertice della direzione o del management della società (o magari un egregio passo falso da parte della concorrenza sufficiente a far cambiare idea sulla scelta del consulente esterno). Una seconda opzione mira a offrire una maggiore qualità a prezzi più competitivi; scelta sostenibile se le sinergie trasversali a cui un piccolo studio deve per forza rinunciare fossero controbilanciate dalle efficienze generate dai costi di produzione. Infine, e come suggeriva il general counsel, bisogna ripensare la struttura interna e il modello di studio per renderlo più idoneo alle esigenze del cliente.

Per il momento, causa la scarsa propensione al consolidamento, rimangono piuttosto esigui i progetti di fusione tra le realtà al di sotto delle 50 unità. I professionisti preferiscono una via di mezzo che li porta a siglare accordi di alleanza con i partner o best friend ritenuti complementari alla propria insegna. Questa strategia sta prendendo piede principalmente fra gli attori della piazza milanese e gli studi radicati in Lombardia e nelle regioni contigue. Dal punto di vista dei professionisti, le alleanze hanno in teoria il merito di rafforzare il raggio d’azione dello studio senza mettere in discussione il controllo assoluto sulla gestione, sui clienti e sui margini. Il demerito delle alleanze è lo stesso: lasciando in fondo tutto invariato non si cambia nulla. E i clienti continueranno a deplorare un’offerta meno che ottimale.






 

 

 


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