Sono 20 milioni di dollari di fee abbastanza per giocarsi la reputazione? L’accesso al potere è un benefit sufficiente per rischiare l’uno contro tutti? Si staranno probabilmente interrogando su questi quesiti i partner di Jones Day dopo lo tsunami mediatico che ha travolto lo studio per la vicinanza a Donald Trump e per le iniziative legali sulle elezioni contestate dall’ormai ex presidente.
L’insegna non è l’unica a essere finita sotto l’analisi critica dell’opinione pubblica. Porter Wright Morris & Arthur, che ha avviato anch’essa cause sui voti in Pennsylvania, è finita parimenti al centro delle polemiche. Non è chiaro se tutto questo produrrà un danno reputazionale permanente, tuttavia il caso presenta aspetti inediti che aprono una riflessione più ampia sulla governance dei rischi su due fronti: la gestione della reputazione e la coesione interna.
Già in passato i consulenti si sono trovati oggetto della rabbia sociale. Un esempio noto a tutti è il caso Enron, nel 2002, con le accuse rivolte ad Arthur Andersen per il suo ruolo nello scandalo. Qui tuttavia ci si trova di fronte anche a un fenomeno nuovo: uno studio legale è finito nel mirino degli attivisti, con manifestazioni fuori dagli uffici e presa di mira dei clienti, alla stregua di qualsiasi azienda. Attivisti non solo fuori ma anche all’interno con i primi esempi di attivismo da parte di appartenenti di uno studio legale.
Rischio fedeltà
L’associazione con un cliente o una causa scomodi non sono nulla di nuovo. Nel caso di Jones Day la vicinanza a Trump è nota e l’ormai ex presidente non è certo il primo nome difficile assistito: ci sono state le multinazionali del tabacco (R.J. Reynolds Tobacco Company) e persino la famiglia Bin Laden. Così come per altri studi, la difesa di clienti controversi può essere usata come strumento mediatico e un punto di orgoglio. Tuttavia, esiste un rischio nel seguire fino in fondo un cliente scomodo. Spostarsi volutamente su un terreno complicato, senza la piena consapevolezza e senza gli strumenti adeguati per reagire, significa rischiare di cadere nella tana del Bianconiglio, mettendo a repentaglio reputa- zione e licenze.
Per Jones Day vi è un monito più vicino del caso Andersen: Michael Cohen, l’avvocato personale di Trump finito in galera a fine 2018 e che a settembre 2020 ha pubblicato le sue memorie. Cohen aveva superato il confine della legalità perché non sapeva rifiutare le richieste del suo cliente. Questa lezione non è servita. A volte dire al cliente che il caso non c’è è la parte più difficile del mestiere. Eppure, le regole dell’American bar association sono chiare: un avvocato non deve portare avanti un’azione a meno che non esista una base di diritto e di fatto per farlo. Per le accuse di frode, la parte deve dichiarare le particolarità delle circostanze — il chi, cosa, quando, dove e come — che ne costituiscono la sostanza.
E il caso Jones Day ha dimostrato che non serve un grande crack finanziario, la falsificazione di bilanci o finanziamenti illeciti. Basta cadere sui valori. Se la maggior parte delle insegne legali non sono brand riconosciuti fuori dalla comunità legale, Jones Day lo è diventata proprio perché ha rappresentato la campagna di Trump o il Partito Repubblicano in circa 20 cause, inclusa quella che è stato additata come il «disperato tentativo del presidente di eliminare abbastanza voti in Pennsylvania per ribaltare i risultati delle elezioni».
È interessante notare come l’opinione pubblica sia andata oltre al merito tecnico-legale della vicenda e alla distinzione avvocato-accusato ma abbia identificato i valori e le finalità dell’insegna con quelli del cliente. Da questo episodio si comprende come la reputazione non possa essere considerata come qualcosa di strettamente legato solo a ciò che si fa ma anche al perché lo si fa.
In ambito aziendale, per esempio, accanto a concetti quale mission e vision si sta diffondendo il concetto di purpose: il fine ultimo che guida l’esistenza di un’impresa e che ha ricadute sugli stakeholder. Ecco, stando alla ricostruzione della stampa americana, l’opinione pubblica oggi ritiene che Jones Day si sia imbarcata in "cause frivole" – legate alla scadenza dei voti postali in Pennsylvania – che non sposterebbero il risultato delle elezioni (visto i pochi voti arrivati tardi), con il fine di prendere parte a una strategia coordinata per minare la fiducia nella democrazia.
Il tutto per tenersi aperte le porte delle stanze del potere. Per avallare la tesi, la stampa americana ha snocciolato i conteggi di tutti i partner di Jones Day approdati in posizioni di potere nell’amministrazione Trump.
La vulnerabilità mediatica
Una rappresentanza scomoda può quindi mettere a repentaglio la reputazione di lungo periodo di un’insegna quando la causa diventa una questione di valori che diventano un potente detonatore su due aspetti. Il primo, inedito e portato all’attenzione dalle vicende americane, riguarda l’ormai conclamata vulnerabilità degli studi di fronte a un'offensiva mediatica su più fronti: stampa, attivisti, studenti, social. Ma anche i clienti.
Mai prima, commentano gli osservatori, si è visto un tale scrutinio su uno studio legale. The Lincoln Project, noto gruppo Repubblicano anti Trump, ha lanciato una campagna pubblicitaria da 500mila dollari contro Jones Day e Porter Wright. A marzo 2020 è nato un nuovo SuperPac, comitato che raccogli fondi a favore o contro un candidato, per opera di tre fratelli, figli di un noto avvocato della musica, Kenny Meiselas, di Grubman Shire Meiselas & Sacks. Il comitato, MeidasTouch, ha raccolto un milione di follower sui social media e
oltre tre milioni di dollari in donazioni grazie a video virali sul web.
In prima fila nelle proteste, il mondo universitario, inclusa l’Università di Harvard e la principale università dell’Ohio (dove Jones Day ha il proprio headquarter). A novembre i dimostranti si sono ritrovati per protestare fuori gli uffici newyorkesi dello studio. «Jones Day: giù le mani dai nostri voti», recitava un murales dipinto dagli attivisti fuori dagli uffici a San Francisco. Parallelamente alcuni avvocati sono stati vittima di scherno sui social. E a cascata sono stati travolti i clienti affinché mollassero la law firm. Tra questi, la società Tlc Verizon e il produttore di auto GM.
Il fronte interno
Accanto alla vulnerabilità mediatica, il secondo aspetto inedito è l’emergere dell’employee activism: iniziative individuali o collettive di lavoratori che si schierano a favore o contro il proprio datore di lavoro su tematiche controverse. Secondo quanto riporta il New York Times, che ha parlato in via riservata con nove partner e associate, diversi avvocati di
Jones Day si sarebbero detti essi stessi preoccupati che le azioni legali intraprese fossero inconsistenti e aiutassero invece Trump a minare l’integrità delle
elezioni americane. Alcuni avvocati hanno avanzato inoltre l’intenzione di andarsene perché i loro clienti non volevano essere associati con l’insegna. Stessi malumori si erano registrati in Porter Wright dove un professionista si è dimesso per protesta. Porter Wright si è poi ritirato dai ricorsi.
A livello aziendale l’attivismo dei lavoratori è un fenomeno in ascesa (si vedano i casi di Google e Amazon) e può essere ricondotto alla crescente pressione da parte degli
stakeholder sulla sostenibilità e responsabilità delle
aziende e sul loro ruolo politico nella società. Secondo Glassdoor tre quarti dei lavoratori americani tra i 18 e i 34 anni affermano di aspettarsi che il proprio
datore di lavoro si schieri sulle importanti questioni che deve affrontare il Paese e sui diritti costituzionali. Non solo l’attivismo dei lavoratori porta danni di
immagine e di reputazione nell’opinione pubblica in generale, ma è sempre più diffusa la convinzione che
le organizzazioni che non riescono a dare risposte
ai propri dipendenti troveranno sempre maggiori difficoltà nell'attrarre, assumere e trattenere i giusti talenti. Il report “The Future of Work” di Herbert Smith Freehills ha rilevato che l’80% delle aziende si aspetta un aumento di questo attivismo. Bene, la notizia è che ora anche gli studi legali devono prepararsi a gestire il fenomeno.
Certamente, c’è chi fa notare il ragionamento opposto: l’obbligo dell’insegna di continuare a difendere clienti di lungo termine nonostante il disaccordo di singoli avvocati sulle loro politiche o tattiche. Tuttavia, la breccia ormai aperta nella reputazione e nella coesione interna potrebbe tradursi in un minor appeal sul mercato dei lateral di peso e del recruitment dei migliori laureati.
La gestione della comunicazione
A fronte di tali rischi, una grande insegna avrebbe dovuto razionalmente abbandonare un cliente così controverso e non troppo remunerativo, visto che 20 milioni sono una cifra non paragonabile alle corpose parcelle che possono garantire negli anni alcuni grandi mandati aziendali. Nel non ritirarsi, avrebbe almeno dovuto mettere in campo strumenti comunicativi adeguati. Per affermare che «non si ritirerà da nessuna rappresentanza» e «si aspetta che i media correggano i numerosi articoli falsi», Jones Day ha infatti pubblicato una nota sul proprio sito che ha avuto il solo effetto di accentuare i malumori.
Nella dichiarazione, l’insegna ha precisato che Trump non è suo cliente ma lo è il Partito Repubblicano della Pennsylvania; che non è coinvolto in alcuna causa volta a sostenere la frode nelle elezioni o che ne contesti il risultato; infine, che la causa solleva importanti questioni costituzionali. Il punto curioso è che non si è mai visto uno studio legale chiarire che non rappresenta il presidente in carica degli Stati Uniti. Rispettando la terza legge di Newton, tale affermazione ha suscitato una nuova ondata di commenti su social e stampa, rialzando l’attenzione mediatica invece di sopirla. “Si inaspriscono le reazioni negative contro Jones Day, l’insegna che aiuta la sfida di Trump alle elezioni” titolava Fortune il 12 novembre, poco dopo la pubblicazione della nota (che ha mandato il sito in crash riferisce Fortune) con riferimento alle proteste
degli attivisti.
La vicenda ha così messo a nudo la necessità di rafforzare i dipartimenti di comunicazione, spesso dedicati a emettere comunicati e gestire pitch, e l'assenza di strumenti per combattere una guerra
mediatica su più fronti.
La due diligence sui valori
Il rischio di un attacco mediatico ha indotto i grandi studi a capire se e come possono essere l’obiettivo dei media e dell’opinione pubblica. Trend recente è la maggiore attenzione delle insegne per tematiche
valoriali come diversity, attenzione all’ambiente, controllo della filiera: le aziende sempre più scelgono i propri partner e advisor facendo una selezione che tiene conto anche di queste variabili e l’allineamento valoriale diventa uno strumento di presidio del cliente.
Per questo gli studi hanno iniziato a comunicare all’esterno un posizionamento anche su queste tematiche. Con il caso Jones Day emerge un tema speculare: certi clienti potrebbero mettere a repentaglio i rapporti con i clienti esistenti. Da qui l’urgenza, oltre che di dotarsi di buoni dipartimenti di comunicazione, quella di capire se alcuni clienti possono rivelarsi un rischio reputazionale troppo grande da gestire. Questo significa che, oltre alle verifiche dei conflitti, serve una due diligence sull’allineamento dei valori.
I dipartimenti di business development da sempre fanno un monitoraggio dei conflitti; dovrebbero monitorare anche i conflitti di valore. Qui viene in aiuto l’intelligenza artificiale, in grado di monitorare la cronaca, il dibattito pubblico e i commenti sui social media. Sistemi che le aziende stanno già utilizzando per misurare la propria reputazione ma che dovranno entrare negli strumenti gestionali anche
degli studi legali.
L'articolo è stato pubblicato su TopLegal Review, nr. febbraio/marzo 2021, disponibile su E-edicola.