Il cielo sopra le law firm non si tinge di rosa. E, soprattutto quando si tratta di scalare la catena di comando, l’aria si fa sempre più rarefatta. È quanto emerge da un’analisi condotta da TopLegal su un campione di 53 insegne. Lo scenario descritto è abbastanza nitido: le professioniste faticano a sfondare il soffitto di cristallo di una professione tradizionalmente di colore “grigio-uomo”. Le donne rappresentato circa il 39% della somma totale dei professionisti.
L’imbuto si fa ancora più stretto scalando la piramide associativa poiché ai vertici l’incidenza delle donne si dimezza ulteriormente: nel 2016 l’84,6% dei soci equity erano uomini, con un residuale 15,4% di partner donna, ancora una volta in calo rispetto all’anno precedente, quando le socie si attestavano al 15,8 per cento.
Per non parlare poi dei managing partner. Le uniche donne a gestire uno studio strutturato, secondo le informazioni in possesso di TopLegal, sono tre: Roberta Crivellaro, managing partner dell’ufficio di Milano di Withers, Stefania Radoccia, alla guida della branch legale di Ey, e da ultima Laura Orlando, scelta da Herbert Smith Freehills per guidare la neocostituita sede italiana. Guardando sempre agli incarichi di maggior rilievo affidati a donne, una nota positiva è stata messa a segno anche dallo studio magic circle Linklaters, che ha nominato la socia italiana del dipartimento di capital markets Claudia Parzani come Western Europe regional managing partner. Un incarico che permette a Parzani di sedere nel comitato esecutivo dello studio, organo responsabile delle decisioni chiave che contribuiscono a definire la strategia e gli obiettivi di Linklaters.
La presenza di donne al comando di strutture di matrice internazionale non deve, però, ingannare. Infatti, alcune delle performance peggiori del mercato si annidano proprio all’interno di queste strutture, dove si registrano percentuali di presenza femminile inferiori rispetto alla media e una leadership quasi del tutto maschile. A differenza di quanto avviene nelle aziende, dove la presenza femminile in posizione apicale è aumentata grazie anche all’introduzione delle quote rosa nei board imposte dalla legge Golfo-Mosca, nel mondo della libera professione non c’è un adeguato sostegno di regole e di sistema.
Qualche dato sul panorama nazionale
Allargando l'analisi a tutto il vasto mondo della professione forense, la presenza femminile ha registrato un netto aumento nel corso degli anni come dimostrano i dati della Cassa Nazionale di previdenza e assistenza forense, secondo i quali sono 240 mila (l’ultimo dato di bilancio approvato è del 2016) e uno su due (il 48%) è donna. Secondo i dati ufficiali della Cassa Forense, dal 1981 a oggi il numero delle avvocate è cresciuto notevolmente: nel 1981 le donne che esercitavano la professione in Italia erano solamente il 7%, raddoppiate nel 1991 al 15%, per poi crescere costantemente fino ad arrivare al 21% (nel 1995), 30% (nel 2001), 36% (nel 2005) e a raggiungere il picco del 48% nel 2016. Attualmente in alcune regioni del centro Nord nelle fasce più giovani (26 – 34 anni), il numero di avvocate è superiore rispetto al numero di colleghi uomini.
Tuttavia, i dati della Cassa Forense evidenziano anche una gravissima disparità reddituale, considerato che il reddito medio delle professioniste è infatti pari a poco più del 43% di quello dei colleghi uomini: nel 2015 il reddito medio dichiarato dagli uomini è stato di 52.763 euro contro i 22.772 euro dichiarato dalle donne.
Il controcanto: l'altra faccia della diversity
Eppure, la diversità (di genere e non solo) potrebbe essere un motore di sviluppo. La ragione, intuita già da tempo nel mondo anglosassone è abbastanza semplice: la diversity è anche un tema di business. Non soltanto perchè un ambiente inclusivo favorisce l’attività dei professionisti, ma anche perchè promuovere la diversità internamente è coerente con le richieste dei clienti, che soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa, in fase di gara per l’affidamento di un mandato chiedono le policy degli studi in termini di diversity.
La sensibilità sul tema è in aumento anche in Italia. Basti guardare a quanto fatto in Snam, realtà ingegneristica storicamente legata alla figura maschile, che oggi può vantare un incremento diffuso della presenza femminile, riuscendo a creare consenso intorno alla leadership femminile attraverso l’interiorizzazione di un cambiamento culturale, che ha spostato l’attenzione dalla gender parity al merito e alle competenze, due qualità che non hanno genere. Un cambiamento culturale non scontato, che andrebbe coltivato. Anche Banca Generali è esemplificativa in questo senso, infatti tre anni fa ha iniziato un progetto legato alla leadership femminile, ideando un programma di formazione del consulente finanziario indirizzato alle donne, che oggi rappresentano il 30% dei consulenti di Banca Generali. Un dato rappresentativo, prova del fatto che unendo formazione tecnica e attenzione al ruolo della donna i risultati ci sono e sono molto positivi.
A fronte del diffondersi di un certo cambiamento culturale, le statistiche relative ai ruoli apicali detenuti dalle donne all’interno delle organizzazioni ancora non rendono giustizia al genere femminile. È per questo motivo che la diversità ha bisogno di “manutenzione”. La diversità è unicità. E poiché a volte manca la capacità di cogliere a priori il valore aggiunto che può portare all’interno dell’azienda, la diversità ha bisogno di policy, di formazione e di indici che misurino il livello di implementazione della diversity. C’è un potenziale femminile inespresso che va utilizzato. Per farlo, le organizzazioni non possono aspettare che sia il contesto a cambiare, ma devono essere in prima linea artefici del cambiamento.
Spiragli di luce dagli studi associati
Qualche segnale positivo in tal senso viene da alcuni dati diffusi da Asla, secondo cui nel 2016 il 53,06% degli studi membri ha adottato concrete iniziative di valorizzazione delle differenze e ben due studi Asla su tre (75,51%) adotta una politica di sostegno dei professionisti nella conciliazione tra vita professionale e vita privata, tesa al miglioramento della qualità della vita: il 56,76% realizza l’intento mediante l’organizzazione di momenti conviviali con le famiglie dei professionisti; il 62,16% con la creazione di spazi interni come la mensa, il ristorante, la cucina e la sala relax; il 70,27% fissa le riunioni interne in orari idonei a conciliare eventuali esigenze familiari; l’81,08% attraverso la possibilità di lavorare da casa; il 29,73% stipula polizze assicurative sanitarie.
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