Retribuzioni

Quanto pesa il gender gap sui portafogli?

Carlo Majer, managing partner di Littler a TopLegal: per contrastare la discriminazione salariale uomo-donna «è necessario un intervento legislativo che renda effettiva la parità anche attraverso lo strumento della sanzione»

21-11-2018

Quanto pesa il gender gap sui portafogli?

 

La parità di retribuzione tra lavoratrice e lavoratore è scritta nero su bianco nella nostra Costituzione. Eppure, per le donne risulta ancora difficile ottenere un trattamento economico equiparabile a quello di colleghi maschi, a parità di lavoro svolto. La differenziazione si riscontra non solo sui dati retributivi, ma anche e soprattutto nell’accesso alle posizioni apicali. Ciò vale certamente negli studi d’affari, dove la presenza femminile nella partnership si ferma al 20% nei grandi studi, per scendere all’11% in quelli medio-grandi (per l’approfondimento completo sulla rappresentanza femminile negli studi italiani si veda TopLegal Review n. 6 ottobre/novembre 2018). Ma la tendenza è analoga anche per le lavoratrici in azienda.

Il tema del “gender pay gap” - tecnicamente, la differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne espressi in percentuale del salario maschile - si pone oggi come una delle priorità all’interno delle aziende. Anche se l’Italia è una delle più virtuose rispetto agli altri paesi europei, con un gap che si assesta intorno al 5%. Per comprendere l’impatto di questo fattore nelle politiche occupazionali, Littler, insegna specializzata nel diritto del lavoro, ha condotto un’indagine su 800 top manager (dei quali oltre 100 in Italia) che gestiscono le risorse umane di aziende europee. Ne è emerso che più della metà degli Hr italiani (52%) pensa che sia necessario introdurre al più presto una normativa che imponga alle aziende la segnalazione dei gap salariali tra uomini e donne. Il tutto entro la fine del 2019, così come hanno già fatto Belgio, Germania e Francia.

Dopo le quote rose stabilite a norma di legge (la Golfo-Mosca del 2011) per far salire le donne ai vertici dei consigli di amministrazione delle società quotate, anche le retribuzioni dovrebbero virare verso toni più rosa grazie al legislatore. TopLegal ha intervistato sul tema il managing partner di Littler Carlo Majer, commentando i risultati della ricerca svolta dallo studio e le possibili soluzioni al problema della disparità retributiva di genere.

 

Perché si rende necessaria l’introduzione di una normativa per colmare il gender gap salariale nelle aziende?
In Italia il divieto di discriminazione per genere in relazione alla retribuzione è sancito tanto dalla Costituzione quanto da una legge speciale. In particolare, l’art. 37 della Costituzione prevede che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. La disposizione ha poi trovato ulteriore specificazione nell’art. 28 del D.lgs. 198/2006 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”), il quale prevede: “E' vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale”. Nonostante l’impegno profuso dal legislatore, in Italia esiste ancora una significativa differenziazione tra uomini e donne.

Tuttavia, la vera differenziazione non è tanto nel puro dato retributivo, che per la verità risulta essere fra i più “paritari d’Europa” (dati Eurostat riferiti al 2016 rivelano infatti un gap del 5,3% a fronte di un gap del 21,5% della Germania o del 15,2% della Francia), bensì nelle politiche occupazionali femminili e nell’impiego ai vertici delle donne, che fanno sensibilmente diminuire la parità tra uomini e donne sul posto di lavoro, collocando l’Italia agli ultimi posti nelle classifiche europee relative al gender gap.
 
Non è sufficiente la gestione delle scelte retributive da parte dei responsabili della funzione Hr?
Certamente le scelte retributive delle singole aziende sono uno strumento fondamentale nella gestione della parità fra uomo e donna, soprattutto perché politiche di questo tipo rappresentano una maturità sociale e culturale di grande importanza. Tuttavia, bisogna considerare che spesso le good practice non sono sufficienti, in quanto non tutte le aziende si trovano nelle condizioni di applicarle. È per tale motivo che spesso, pur a fronte di una buona volontà, è necessario un intervento legislativo che renda effettiva la parità anche attraverso lo strumento della sanzione.
 
Ci sono già iniziative in Italia volte alla definizione di una proposta di legge sul gender gap?
Pare che parlamentari del Movimento 5 Stelle abbiano sottoscritto una proposta di legge che prevede l’introduzione nel Codice delle pari opportunità di “un regime di comunicazioni” secondo cui le imprese devono rendere noti ogni anno i dati sulle retribuzioni e bonus pagati ai dipendenti, oltre a prevedere che le imprese private con oltre 15 dipendenti e le amministrazioni pubbliche debbano sottoporre annualmente a verifica il “Piano di Azioni”, finalizzato a prevenire qualsiasi forma di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella promozione e formazione professionale.
 
Una regolamentazione che imponga alle aziende la “segnalazione dei gap salariali tra uomini e donne” in quali attività si dovrebbe tradurre nella prassi?
Innanzitutto, sarebbe utile, ai fini di un corretto e costante monitoraggio, un obbligo in capo alle aziende di stilare report periodici informativi sulle retribuzioni medie dei propri dipendenti, suddivise per inquadramento e ovviamente per genere. Tale dato deve però necessariamente accompagnarsi alla segnalazione del numero di dipendenti donne e uomini impiegati, nonché dei relativi ruoli, in quanto, come detto, la vera discriminazione cui oggi assistiamo non è tanto e non è solo nella retribuzione ma si annida maggiormente nelle differenze all'accesso al lavoro, alla carriera e nelle differenze qualitative delle condizioni di lavoro. Va da sé che la raccolta di questi dati non deve essere un mero adempimento burocratico, che le aziende vivono come un peso, bensì deve essere il punto di partenza per la costruzione di un sistema che consenta di garantire una reale parità tra uomini e donne nel mondo del lavoro.
 
L’esperienza insegna, però, che senza un apparato sanzionatorio efficace difficilmente si ottiene un allineamento spontaneo delle aziende, sicché di fatto la parità tra uomo e donna non può che passare anche da strumenti che, incidendo sull’economia dell’azienda (ad esempio attraverso la mancata erogazione di incentivi economici o attraverso l’imposizione di una sanzione economica), possano rendere effettivo lo sforzo compiuto in questo senso.
 
Quali paesi in Europa hanno già introdotto una normativa al riguardo? E quali meccanismi di tutela sono stati previsti?
Diversi paesi europei hanno già implementato normative che consentono il monitoraggio e talvolta anche la sanzione delle aziende che non ottemperino agli obblighi di parità retributiva. In Islanda, è stata varata una legge che obbliga i datori di lavoro a fornire periodicamente una documentazione sulla parità di trattamento retributivo fra uomo e donna ai fini dell’ottenimento di una certificazione aziendale che consente di evitare l’applicazione di sanzioni. In Gran Bretagna, le grandi aziende sono obbligate a pubblicare i dati sul differenziale di genere relativamente a salari e bonus dei loro dipendenti. In Francia, una legge del 2006 ha previsto sanzioni per le aziende con almeno 50 dipendenti che non rispettino gli obblighi sulla parità retributiva di genere e dal 2013 si segnalano le prime condanne di datori di lavoro inadempienti. In Germania, nel 2017 il Bundestag ha approvato una normativa che obbliga le aziende con più di 200 dipendenti a rendere note le retribuzioni corrisposte a parità di prestazioni. Inoltre, le aziende che occupano più di 500 dipendenti devono fornire rapporti periodici sul trattamento salariale.

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