Quest'oggi, i principali quotidiani sono pieni di commenti ed articoli che ricordano la figura di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato assassinato dalla mafia mentre svolgeva il suo ruolo di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Cosa ha suscitato questa ondata di ricordi? Il fatto che il senatore a vita Giulio Andreotti ha dichiarato che l'avvocato "se l'andava cercando", durante un'intervista a Giovanni Minoli per La storia siamo noi.
Andreotti ha successivamente dichiarato d'esser stato frainteso. Ad ogni modo, noi crediamo che Ambrosoli fu assassinato perché scelse di fare con onestà e diligenza il suo lavoro come ricorda suo figlio Umberto, in questa intervista pubblicata alcuni mesi fa su TopLegal.
Da tempo avevamo in mente di dedicare un articolo alla professione forense. Realizzare un “pezzo” in cui provare a raccontare cosa significhi essere avvocati. E dopo aver letto «Qualunque cosa succeda» di Umberto Ambrosoli, abbiamo scelto di affrontare con lui questo argomento. Umberto Ambrosoli è un giovane penalista. Lavora in un importante studio di Milano (lo studio dell’avvocato Lodovico Isolabella). È figlio di Giorgio Ambrosoli, avvocato assassinato l’11 luglio del 1979 mentre svolgeva il mandato di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Lei perché ha scelto di fare questa professione?
Sicuramente sono stato condizionato da quello che è successo a mio padre. Nel senso che, fin da giovanissimo ho capito che attraverso questa professione è possibile essere utili alla società.
Quale ritiene sia stato l’insegnamento principale della vicenda di suo padre?
Per quanto ho avuto modo di scoprire, altri due professionisti (uno dei quali avvocato) erano stati richiesti per lo stesso ruolo di commissario liquidatore della Banca privata italiana. Entrambi risposero di no. Papà fu il terzo a cui lo chiesero. E lui accettò. Rispose di si esattamente per le stesse ragioni per cui gli altri avevano detto di no: bisognava mettere le mani in un ginepraio bestiale. Tuttavia, mentre i primi due hanno vissuto questa richiesta come uno scoglio da evitare, lui l’ha considerata un’occasione di mettersi a servizio del Paese e di fare qualcosa. Il biglietto che accompagna la prima relazione che papà invia al governatore della Banca d’Italia, riporta una frase di ringraziamento. La presa di responsabilità è stata l’esempio. Ma c’è dell’atro.
Cosa?
La consapevolezza di cosa significhi avere un ruolo. Si tratta di un fatto estremamente razionale, mentre la volontà di mettersi al servizio può avere anche una componente di pathos. Essere consapevoli non significa essere orgogliosi di un titolo, ma vuol dire sapere che si risponde di quello che si fa anche se gli altri non se ne accorgono, perché in primo luogo si risponde a se stessi.
In che momento ha espresso questa consapevolezza?
Quando Gherardo Colombo e altri mi hanno detto che mio padre avrebbe potuto cambiare veramente il corso delle cose, senza neanche necessariamente andare a fare un favore a Sindona, semplicemente decidendo di “guardare” delle carte in un secondo momento e quindi fermando la propria curiosità, mi hanno fatto capire che è stato consapevole del proprio ruolo per tutto il tempo. E ha affermato questa consapevolezza ogni giorno, davanti a ogni scoperta e davanti alla possibilità di prendere una posizione. Questa è la consapevolezza che va di pari passo con la consapevolezza del significato della propria libertà e dell’assoluta necessità di difenderla davanti a tutti. L’esempio di papà è stato particolare, poi, perché il “cliente” che gli aveva dato il mandato era un’entità collettiva: lo Stato. Gli ineteressi che rappresentava non erano gli interessi di un singolo, ma di uno Stato che aveva due teste e interessi contrapposti. All’interno delle istituzioni c’era chi voleva la liquidazione di una banca e la punizione dei responsabili di quel fallimento, ma al contempo c’era chi voleva un esito esattamente opposto per quella vicenda. La responsabilità era dire: io ho un mandato e devo risponderne all’ordinamento e non all’esigenza del momento.