Intervista

Roberto Casati: «Giovani, imparate a sparigliare»

Secondo il partner di Linklaters, la prossima sfida dell’avvocatura sarà quella di utilizzare l’innovazione e la tecnologia in maniera creativa, evitando l’appiattimento legato alla crescente standardizzazione

03-07-2018

Roberto Casati: «Giovani, imparate a sparigliare»


L'avvocatura non sarà un’isola felice e soprattutto richiederà creatività. Tecnologia interpretata come innovazione ma anche capacità di riportare il valore della fiducia nella relazione con il cliente saranno le sfide chiave per le nuove generazioni. In un colloquio esclusivo con TopLegal, Roberto Casati (in foto), uno dei pochi grandi consigliori che negli anni 2000 scelse di legarsi a uno studio internazionale, condivide le proprie riflessioni sul futuro della professione e l’analisi sul mercato legale che lo ha portato a unirsi da poco a Linklaters. Un professionista che, fin dagli esordi, ha segnato il passo di un percorso sui generis per il mercato italiano. Casati, che vede nella diligenza una delle principali qualità distintive della professione (leggi anche l’articolo “Le 17 qualità del buon avvocato”, in TopLegal Review aprile/maggio 2018) non ama farsi chiamare rainmaker ed esprime posizioni che possono essere riassunte in una triplice chiave di lettura. In primo luogo, una concezione libertaria della società plasmata da una cultura anglosassone-protestante fondata sul valore dell’individuo. Assieme a questo emerge una forte convinzione, di matrice umanistica, nella piena espressione e nel pieno sviluppo delle eccellenze umane contro la tipicizzazione e l’appiattimento della modernità. Non senza, infine, una certa dose di pessimismo storico che vede il tramonto degli anni d’oro dell’avvocatura e la necessità per i giovani di recuperare il pensiero laterale e la creatività. 

Lei è stato uno dei pochi rainmaker italiani che ha scelto di legarsi a uno studio internazionale. Perché? 
Vorrei che si lasciasse cadere la parola rainmaker, perché legata al successo economico di un avvocato. Mi piace invece pensare, per via dell’età, della formazione, di essere considerato un avvocato di buona reputazione. E in questo percorso non ho mai pensato di fare la professione all’italiana. Una scelta legata anche al mio background: credo di essere l’unico avvocato italiano della mia generazione ad aver passato circa otto anni negli Stati Uniti conseguendo una vera e propria laurea in legge (J.D.) alla Columbia Law School (oltre a un LL.M. alla University of Michigan) ed esercitando poi la professione come avvocato americano a Wall Street da Sullivan & Cromwell a NY. La mia idea è quindi sempre stata quella di uno studio internazionale, col desiderio di lavorare nel mondo e in una struttura meritocratica. Anche in Brosio Casati vigeva un sistema di lockstep e il voto per testa e non per percentuale. Insomma, una struttura di governance credo diversa da quella di molti studi italiani di successo, certo di allora ma credo anche di adesso. E anche Brosio Casati è nato con tre uffici in Italia e poi ha aperto a Bruxelles ed è stato uno dei primi dieci studi legali del mondo a ottenere la licenza dalle autorità e aprire in Cina nei primi anni Novanta.

Perché scelse di andare all’estero?
Una delle ragioni è che allora mi posi una domanda sul mio futuro professionale in Italia. Allora non c’erano ancora studi stranieri se non il piccolo californiano Graham & James e Baker McKenzie. Era ancora quel mondo in cui dopo aver fatto il praticante (se non avevi legami di famiglia) dovevi crearti il tuo studio, altrimenti eri destinato a rimanere il secondo, terzo, quarto. Per me l’internazionalità è stata quindi una via di emancipazione professionale e culturale: scelsi di sparigliare le carte e di andarmene. Ricordiamoci che si parla degli anni antecedenti ai grandi investimenti stranieri in Italia, con un sistema economico e finanziario che era molto chiuso. 

Tuttavia, in passato lei si è espresso sui limiti del modello legale inglese in Italia, soprattutto dell’approccio all’organizzazione interna e della gestione di stampo aziendalistica. Cos’è cambiato nella proposta londinese rispetto al 2004? 

Non so se c’è un modello inglese vero e proprio e uno americano. Tanto più che gli inglesi si basano maggiormente sul lockstep e quindi su un sistema meritocratico. Bisogna poi considerare l’evoluzione della storia degli studi inglesi in Italia. Ai tempi dei primi investimenti degli studi inglesi in Italia, l’85% dei soci era inglese, ora ad esempio da Linklaters a livello mondiale la percentuale è scesa al 40%. Si tratta di studi di matrice inglese ma nei fatti con un’impronta culturalmente molto diversificata. Il mio essere critico fu molto legato a una situazione specifica in cui mi trovavo al momento, non credo si possa generalizzare quella situazione. Allo stesso tempo è anche vero che neanche il modello americano è universalmente costante (o da me condiviso). Cleary Gottlieb Steen & Hamilton ad esempio adotta un modello di lockstep, ma la maggioranza degli altri studi americani si basano sull’ Eat what you kill. E si può anche dire che, se è vero che gli studi inglesi erano molto burocratizzati, lo erano anche gli americani: erano i primi anni di vera internazionalizzazione degli studi legali e ciascuno si portava dietro il proprio bagaglio con la propria dose di diffidenza e di divario culturale. Ma quel mondo è passato presto. Dopo le burrasche iniziali, tutti gli studi stranieri sono venuti in Italia con grande rispetto dei professionisti italiani. Io stesso in Allen & Overy ero uno dei tre coordinatori della corporate practice mondiale. 

Quali potrebbero essere oggi i punti di forza in Italia di uno studio internazionale come Linklaters?
In aggiunta alla fondamentale considerazione che Linklaters è uno studio di eccellenza e di eccellenze, autenticamente globale e con una forte cultura di innovazione e di partnership, ritengo che Linklaters abbia uno spirito di imprenditorialità e una flessibilità operativa e decisionale che ben si adattano ai tempi attuali, caratterizzati da volatilità e imprevedibilità (soprattutto in Italia…). Inoltre, pur nelle spiccate differenze di personalità, vi è una profonda condivisione di valori professionali tra i soci e senior dello studio italiano, che deriva anche dalla lunga consuetudine lavorativa (anche in studi precedenti) e da una gestione molto inclusiva: è mia opinione che uno studio possa ben operare solo se vi siano valori condivisi e universalmente applicati nell’esperienza di ogni giorno e nei rapporti interpersonali. Sotto questo profilo, sono lieto di aver ritrovato molti professionisti che erano stati con me da Brosio Casati (e anche da Allen & Overy): ciò garantisce un naturale affiatamento ed un’intesa preziosi. Inoltre, Linklaters si caratterizza per un alto grado di innovazione, sia sul piano operativo che tecnologico. Penso ad esempio all’agile working e all’uso dell’intelligenza artificiale (Ai). La professione sta cambiando, pensare di farla come cinquanta — ma anche dieci — anni fa è sbagliato sia sul piano rapporti interpersonali sia tecnologico.

Il resto dell'intervista è disponibile sul numero di giugno/luglio di TopLegal Review


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Allen & Overy, SLA Linklaters, Baker McKenzie, Graham & James, Sullivan & Cromwell, Brosio Casati e Associati, Cleary Gottlieb Steen & Hamilton RobertoCasati


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