Quando, nel 2001, il legislatore italiano emanò il D.Lgs. 231 – ovvero la norma che disciplina la responsabilità degli enti e delle persone giuridiche – non indicò tra i reati “presupposto” gli illeciti di natura colposa e, così facendo, escluse le norme in materia di sicurezza e tutela del lavoratori dalla sfera applicativa della legge.
All’epoca tale omissione non sollevò particolari perplessità in quanto la natura colposa delle descritte fattispecie non sembrava perfettamente compatibile con il criterio di imputazione concernente la responsabilità “231”: la società infatti è responsabile per “l’illecito da reato” solo se il delitto presupposto è stato commesso nel suo interesse o vantaggio, requisiti che sembravano difettare nel caso in cui un lavoratore si fosse accidentalmente infortunato sul luogo di lavoro.
Nel 2007, però, il legislatore ha introdotto, all’art. 25 septies, anche i reati correlati agli infortuni sul lavoro (omicidio e lesioni colpose) e, così facendo, ha superato tutti i dubbi sollevati in passato ritenendo che il datore di lavoro, pur non volendo il verificarsi dell’infortunio, possa agire comunque allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica, così come accade, ad esempio, nelle ipotesi di “risparmio dei costi per la sicurezza ovvero nel potenziamento della velocità di esecuzione delle prestazioni o nell’incremento della produttiva, sacrificando l’adozione di presidi antinfortunistici”, come evidenziato anche dal recente aggiornamento delle Linee Guida 231 di Confindustria (marzo 2014 approvate il 21 luglio 2014).
La giurisprudenza ha poi chiarito che il requisito dell’interesse verrebbe meno solo nel caso in cui la condotta colposa fosse del tutto estemporanea ed occasionale o, in altre parole, non finalisticamente diretta ad arrecare un beneficio per l’ente, mentre il requisito del vantaggio non sarebbe configurabile se ottenuto in maniera del tutto fortuita e non correlato ad una colpa organizzativa dell’ente: in tali casi pertanto la persona giuridica potrebbe andare esente dalla responsabilità “231”.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui il preposto dimentichi, per una mera disattenzione, di consegnare un determinato DPI (già regolarmente acquistato dalla società) ad un lavoratore poi infortunatosi a causa del mancato utilizzo di tale dispositivo; in tal caso il preposto non avrebbe perseguito alcun interesse a favore dell’ente e, peraltro, la società, avendo già affrontato la spesa per l’acquisto del predetto DPI, non avrebbe ottenuto alcun vantaggio da tale condotta omissiva, per quanto astrattamente colpevole.
Dopo i primi anni in cui gli infortuni sul lavoro hanno trovato scarsa applicazione in ambito 231, sembra però che, a seguito delle prime pronunce ormai divenute casi pilota, gli sviluppi siano ben diversi.
Brutte notizie, quindi, per gli imprenditori che pensano di assolvere agli adempimenti “231” seppellendo il giudice con risme di carta riportanti modelli generici (magari raccolti acriticamente da internet o dai siti delle associazioni di categoria) od istituendo un organismo di vigilanza compiacente e privo di effettivi poteri disciplinari.
Tra le più importanti sentenza “apripista” merita di essere ricordata quella, tristemente nota, relativa alla società “Thyssen Krupp”1 presso il cui stabilimento di Torino, nel dicembre del 2008, perirono sette lavoratori a seguito dell’incendio di una linea di produzione; all’esito del relativo processo di secondo grado (confermato dalla Cassazione per quanto concerne la responsabilità dell’ente), tale società è stata condannata alla sanzione pecuniaria di €1.000.000 ed a diverse sanzioni interdittive.
Con tale sentenza i giudici hanno stabilito che gli imputati avevano colpevolmente agito al fine di perseguire l’interesse della società e, così facendo, avevano conseguito uno specifico vantaggio costituito dalla entità dei finanziamenti (pari ad €800.000) già appostati per la messa in sicurezza della linea di produzione, ma poi non utilizzati trattandosi di uno stabilimento ormai destinato alla chiusura.
Il provvedimento, però, è significativo anche sotto un altro e diverso profilo.
La condanna dell’ente, infatti, può sembrare per certi versi sorprendente in quanto, all’epoca dell’incidente, la società era già dotata di modelli organizzativi: ebbene, i giudici, dopo un attento esame degli stessi, hanno giudicato tali modelli inefficaci anche con particolare riferimento ai requisiti di autonomia e controllo dell’OdV.
La netta censura della sentenza, in particolare, si è concentrata su uno dei componenti di tale organismo, ovvero un soggetto “interno” all’ente e responsabile di due settori operativi della società su cui l’OdV avrebbe dovuto esercitare il controllo: costui, si legge in sentenza, non era altro che il “giudice di se stesso” e l’ente, accettando tale palese conflitto di interesse, aveva svilito il ruolo di tale organismo ad una mera funzione burocratica e “di facciata”, rendendo così il modello inefficace.
Il giudizio negativo su modelli adottati dall’ente ha caratterizzato anche la sentenza del Tribunale di Trani2 il quale ha affrontato, nel 2009, il caso relativo alla morte di alcuni lavoratori dipendenti di più società che, introdottisi in una cisterna per ripulire i residui di zolfo solido ivi contenuti, erano deceduti a seguito della esalazione degli acidi ancora presenti all’interno del sito; anche in tale caso gli enti coinvolti sono stati condannati a sanzioni pecuniarie da €400.000 ad €1.400.000.
Il giudice di Trani, oltre ad individuare l’interesse ed il vantaggio ottenuto dall’ente nel risparmio dei presidi antinfortunistici, ha rilevato la evidente lacuna di cui era affetto il modello della società che aveva la gestione della cisterna: tale modello non prevedeva cautele o regole per evitare che dipendenti di terzi potessero subire lesioni (o perdere la vita, come purtroppo accaduto) per infrazioni commesse dai loro datori di lavoro, rivelatisi del tutto incapaci a gestire la lavorazione di sostanze pericolose; in sostanza, si legge in sentenza, il controllo dei rischi previsto dal modello non può esaurirsi nell’ambito della società in questione ma deve verificare anche l’osservanza delle medesime regole da parte di tutti coloro che entrano in contatto con i mezzi (nel caso in esame le cisterne) dell’ente condannato.
In entrambi i casi descritti, ma potrebbero esserne citati altri3, i giudici non si sono limitati al dato formale – l’ente si era dotato di modelli precedentemente all’infortunio – ma si sono spinti ben oltre, esaminando nel dettaglio i modelli stessi e la effettiva composizione dell’OdV, verificandoli alla luce del caso concreto e cercando di comprendere se tali adempimenti fossero “di facciata”, come poi si è stabilito nei casi citati, oppure realizzati tenendo ben a mente la specifica realtà aziendale.
Va evidenziato che nei casi di Torino e Trani le Procure competenti contestarono all’ente, da subito e con fermezza, la responsabilità “231”, scelta corretta e comprensibile anche alla luce del clamore e della tragica gravità dei fatti di processo.
Tuttavia, dal 2007 al 2013, come sopra già evidenziato, diversi incidenti (fortunatamente) molto meno seri non sono stati accompagnati dal medesimo rigore applicativo: ci si riferisce a quegli infortuni che, senza mettere in pericolo la vita del lavoratore, lo costringevano comunque ad un’inattività superiore ai 40 giorni e, quindi, astrattamente idonea a far “scattare” la responsabilità “231”; in tali casi i PM tendevano a coltivare l’azione penale solo nei confronti del datore di lavoro (o, comunque, avverso i soggetti fisici autori del reato “presupposto”), evitando però il coinvolgimento della persona giuridica che, in virtù di ciò, restava estranea al processo.
La spiegazione di tale “generosa” prassi, forse, risiedeva non solo nei mai sopiti dubbi in tema di compatibilità tra colpa del reo ed interesse/vantaggio dell’ente, ma anche nella scelta di non voler colpire aziende, soprattutto se di medie o piccole dimensioni, con sanzioni elevate (in caso di condanna, la sanzione pecuniaria minima è comunque pari a € 25.800) a fronte di fatti colposi percepiti come di media o bassa gravità. Vero che la legge prevede la possibilità di ottenere una riduzione della sanzione nel caso in cui i modelli organizzativi siano efficacemente adottati prima del processo, ma, va da sé, se a tale iniziativa consegue una vantaggiosa diminuzione della sanzione pecuniaria, l’imprenditore dovrà comunque affrontare i costi, non banali, generati dalla “messa in regola” della società ai sensi della “231”.
Più di recente però anche tale prassi sembra essere stata abbandonata a favore di una più sistematica rigorosa applicazione dell’art. 25 septies, quantomeno per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro di competenza della Procura di Milano: l’esperienza di questi ultimi mesi ci ha mostrato PM decisamente severi nell’applicazione della legge nei confronti dell’ente, ma altrettanto disponibili a ragionare su patteggiamenti molto “convenienti”, a patto però che la persona giuridica si sia nel frattempo adeguata alla “231”, adottando – efficacemente - i modelli organizzativi.
Sembra dunque che sia ormai stata presa la decisione di sensibilizzare anche le realtà imprenditoriali medie e piccole su una materia che, dopo oltre 10 anni, è talvolta percepita come un “oggetto” ancora sconosciuto o al più ritenuto come un mero “costo” imposto dalla legge e quindi, in ultima analisi, del tutto sacrificabile a fronte di altre e più “urgenti” esigenze aziendali: la “rivoluzione culturale” che il legislatore aveva attuato nel 2001 e, poi, nel 2007, là ove aveva per la prima volta intaccato il principio societas delinquere non potest anche con riferimento agli infortuni sul lavoro, non è ancora conclusa e forse questa “tolleranza zero” solo recentemente adottata dalle Procure sembra l’inevitabile strumento necessario a perseguire gli originari obiettivi della legge.
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1 Corte Assise di Torino, Sez. I, 28 febbraio 2013
2 Tribunale Trani, Sez. Molfetta, 26 ottobre 2009.
3 Oltre alle pronunce descritte si ricordano anche quelle emesse dal Tribunale di Pinerolo, 23.09.2010; Tribunale di Novara, 1.10.2010; Corte d’Appello di Brescia, Sez. II, 14.12.2011; Tribunale di Torino, Sez. I, sent. 10.01.2013.
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