Dentro lo studio

Smart working negli studi: una chimera?

Il lavoro agile è ormai una realtà consolidata nelle aziende, ma fatica ad entrare nelle porte degli studi legali. TopLegal ha provato ad indagare sui motivi

11-03-2019

Smart working negli studi: una chimera?



Il lavoro agile o smart working è stato formalmente introdotto in Italia con la legge n. 81/2017. La definizione che ne dà la legge è la seguente: “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Nelle società è un modello sempre più utilizzato, dal momento che garantisce maggiore flessibilità senza alcun arretramento nella produttività. Tuttavia, all’interno degli studi legali spesso non è prevista tale modalità di lavoro oppure se lo è sono pochissimi a sfruttare questo strumento. 

Quali sono le ragioni del boicottaggio da parte delle law firm, anche le più strutturate? Abbiamo provato ad indagarne i motivi.

L’Osservatorio del Politecnico di Milano ha recentemente condotto una ricerca sul tema e ha definito il lavoro flessibile “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. La ricerca ha rivelato tutti gli aspetti positivi del lavoro flessibile: per l’azienda si registra una maggiore produttività individuale (calcolata in circa il 15% in più) e la continuità operativa del lavoratore (e quindi del business); per il lavoratore invece si ottiene una maggiore flessibilità e un miglior equilibrio vita privata-lavoro. Senza contare i benefici che apporta per la collettività, in termini di minore inquinamento dell’aria in virtù della riduzione degli spostamenti. Perché, dunque, gli studi legali faticano ad implementare questo modello decisamente “win-win”? 

Le ragioni dell’ostruzionismo degli studi risultano apparentemente insondabili. Perciò proviamo ad andare per esclusione. Il problema non può essere certo la dotazione tecnologica. Non vi è studio di medie/grandi dimensioni che non fornisca ai propri professionisti il pc portatile e il telefono aziendale, oltre al fatto che molti si dotano di sistemi per poter accedere da remoto. Non si ravvede nemmeno una motivazione economica. Il fatto che il professionista non venga in ufficio e non usi l’attrezzatura dello stesso consiste in un evidente risparmio.

Qual è allora il limite all’ingresso dello smart working negli studi legali? Il problema potrebbe essere culturale. L’avvocato, che è libero professionista solo di nome ma non di fatto, difficilmente può permettersi di essere assente dallo studio. La richiesta di una presenza costante (spesso non solo nelle ore diurne) è legata in parte alla tradizionale sottomissione al proprio partner di riferimento e in parte – nel caso raro in cui si sia diventati partner – dalla necessità di far sentire ai propri collaboratori la propria presenza in studio quale monito alla produttività.

E così proprio dove dovrebbe prosperare la flessibilità e la libertà da ogni luogo e orario, vige invece il più rigido immobilismo. Esserci è sinonimo di produttività mentre non esserci (o meglio non essere visti mentre si lavora) equivale ingiustamente a pigrizia e inefficienza. 


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