Da anni la success fee è una condizione contrattuale sempre più richiesta agli studi legali. Eppure, nonostante il mercato leghi la remunerazione di un consulente al risultato prodotto, soltanto il 24,6% dei clienti, secondo una recente indagine realizzata da TopLegal, utilizza strumenti per la valutazione della performance.
La percentuale dei direttori legali che hanno indicato di valutare metodicamente le prestazioni dei consulenti esterni vede una netta predominanza delle aziende multinazionali straniere, ma anche qui non senza qualche riserva. Nella maggioranza dei casi – riferiscono i diretti interessati – si è obbligati a preparare rapporti anche strutturati perché costretti dalla casa madre. Inoltre, la maggior parte afferma di utilizzare i resoconti soprattutto nell’ambito del recupero crediti, attività spesso data totalmente in outsourcing e che consente un riscontro immediato del risultato.
La misurazione delle prestazioni, quindi, non sarebbe valutata come un valore. Anzi, in certi casi è ritenuta ridondante e inutile rispetto ad una valutazione qualitativa e soggetta alla sensibilità del General counsel. Un numero elevato di giuristi d’impresa, infatti, sono convinti di prendere le decisioni relativamente «ideali» per gestire strategicamente la direzione affari legali.
Se l’efficienza del modello di gestione della consulenza esterna è stata finora oggetto di un’attenzione piuttosto modesta da parte dei General counsel, potrebbe essere in ragione dell’obiettivo principale che i direttori legali si sono posti in questi anni di crisi. Lo sforzo di rientrare nel budget annuale imposto dall’azienda ha rappresentato per loro l’urgenza assoluta. Ottenere un mandato a una buona tariffa ha quindi soddisfatto l’esigenza di ridurre i costi. Tuttavia, tale politica offre solo un orizzonte limitato per il taglio della spesa legale. Per creare un rapporto più proficuo con il consulente, i clienti dovranno guardare all’efficienza e non solo al costo della spesa.