Lato offerta un benchmarking sui prezzi dei servizi legali è senz’altro un’arma a doppio taglio. La nota dolente è chiara: per gli advisor diventerebbe assai difficile nascondersi dietro la massima per cui “la qualità costa”. Uno dei primi fattori che incide sulla tariffazione riguarda la reputazione non tanto degli studi o dei dipartimenti, quanto dei singoli. Per l’impostazione personalistica (e talvolta clientelare del mercato), infatti, l’unità di misura predominante è il singolo socio che spesso, si immagina, possa fare la differenza. Là dove più alta è la reputazione, maggiore è la tariffa richiesta. Ebbene, mettere a nudo i benchmark tariffari potrebbe mostrare, invece, che si possono ridurre i costi senza sacrificare la qualità. Facendo diminuire, quindi, il potere negoziale basato sull’equazione reputazione- qualità- costo.
Se è vero questo, è altrettanto vero che uno dei vantaggi principali per gli studi sarebbe quello di vedere svelati con maggiore chiarezza i settori soggetti a dumping. E quegli ambiti, invece, in cui è possibile competere non soltanto sulla logica del prezzo. La maggior parte dei dipartimenti legali in passato ha sottovalutato il problema di pagare tariffe orarie stellari per la consulenza esterna. Con il senno del poi, quindi, si è capito che gli studi applicavano parcelle spesso spropositate rispetto al servizio offerto. Successivamente, la maggiore consapevolezza imposta dalla crisi economica ha portato a una necessaria riduzione della spesa legale. I direttori affari legali, stretti nel budget – diventato un obiettivo insindacabile – sono passati a farla da padrone e da ago della bilancia, promuovendo più o meno direttamente un gioco al ribasso, fino al punto che alcuni servizi, ormai considerati commodity, sono svenduti a prezzo di saldo.
È quella che alcuni hanno definito la “cinesizzazione” del lavoro professionale; un gioco al massacro in cui si è abbassata la redditività degli studi. Persino gli studi più blasonati e le medie e grandi law firm, in alcune occasioni o abitualmente, hanno risposto a beauty contest spiazzando i concorrenti e proponendo i servizi del proprio studio a prezzi stracciati. Per farsi conoscere e diventare indispensabili, per ottenere un mandato prestigioso, o solo per resistere alla crisi di mercato.
Il benchmarking permetterebbe, individuando dei parametri di spesa medi, di poter parlare di sottocosto e di concorrenza sleale. Infatti, come ha messo in luce un avvocato non molto tempo fa, «parlare di dumping avrebbe una logica se ci fosse un benchmarking chiaro». Di contro, in assenza di un benchmarking, non è possibile associare la parola dumping ai servizi legali.
Ma il benchmarking non svelerebbe soltanto le eccezioni tariffarie per difetto, ma anche quelle per eccesso. Con studi, o molto più spesso singoli professionisti, che forti di rendite di posizione dure a morire vengono ingaggiati solo per il loro nome, senza alcuna preventiva (né successiva) analisi del rapporto prezzo-qualità-valore. Un fenomeno che ha portato alla nascita di un’intera generazione di super- soci, dotati di un enorme potere negoziale interno allo studio ed esterno. Un potere a volte avallato da taluni clienti, in un rapporto di convenienza reciproca tra clienti e consulenti.
Come si scontreranno queste logiche di potere nell’ambito di un sistema più trasparente in cui a risultare premiante è soprattutto il valore del servizio? Sicuramente non sarà più possibile ignorare che dei benchmark esistono. Anche se è difficile pensare a un cambio di rotta radicale nel breve termine. Più probabilmente, la trasparenza si potrà inserire nel sistema esistente, ma senza scardinarlo del tutto. In un mercato ibrido, dove prassi più evolute continueranno giocoforza a convivere con quelle più vetuste.
Benchmarking (2)