Come è noto, la funzione del patto di prova è di verificare, nell’interesse reciproco delle parti, l’utilità della prosecuzione del rapporto di lavoro. In particolare, mentre il datore potrà verifica la capacità professionale della nuova risorsa e la sua complessiva idoneità in relazione alle mansioni affidate e al contesto aziendale, d’altra parte, il lavoratore potrà valutare l’effettiva convenienza all’occupazione, l’ambiente di lavoro e la corrispondenza con le sue aspettative e obiettivi di carriera.
Consideratone l’uso ricorrente, è fondamentale comprendere quali siano i limiti e i vincoli posti dalla legge, dai contratti collettivi, nonché in particolare dall’interpretazione giurisprudenziale, anche recente.
In ordine alla forma, il patto di prova deve risultare da atto scritto, sottoscritto dal lavoratore, con indicazione della durata che non può superare i sei mesi, salva durata inferiore prevista dai contratti collettivi. Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, invece, il periodo è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere. Il patto è nullo nel caso in cui la durata della prova coincida con quella del contratto nel quale è stata inserita.
La recente sentenza della Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 6552 del 2023, ha poi chiarito che il patto di prova apposto al contratto di lavoro non solo deve risultare da atto scritto, ma deve contenere la “specifica indicazione delle mansioni da espletarsi, ponendo eventualmente un riferimento alle previsioni del contratto collettivo, ove sul punto sufficientemente chiaro e preciso; la relativa mancanza costituisce infatti motivo di nullità del patto”.
Al fine di scongiurare la nullità del patto – e conseguentemente l’assunzione definitiva – è essenziale, quindi, una precisa definizione dei compiti e delle concrete e specifiche attività che il lavoratore andrà a svolgere, con la possibilità di fare riferimento alle disposizioni collettive.
Tutto ciò considerato, le cause di nullità del patto possono attenere a vizi formali del medesimo, ossia forma scritta prevista ad substantiam, oppure alla sostanza del rapporto contrattuale, cioè nel caso in cui si ravvisi un'inconciliabile discrepanza tra quanto inserito e le effettive dinamiche che si realizzano al momento dell'esecuzione delle prestazioni contrattualmente previste (Cass. civ., sez. lavoro, n. 5875/2023).
Quanto alla gestione del rapporto durante il periodo di prova, è altresì necessario che quest’ultimo consenta l’effettiva verifica delle capacità e dell’attitudine del lavoratore. In caso di recesso da parte del datore, il lavoratore non potrà sindacare l’esito della prova, ma solo l’effettuazione della stessa.
In altre parole, il recesso datoriale sarà illegittimo non solo laddove la prova non sia stata consentita concretamente, ma anche in mancanza di una descrizione – potremmo dire – realistica e sufficientemente adeguata delle mansioni da svolgere. Si badi che la determinazione di tali situazioni può essere complessa e non sempre agevole. Pertanto, può essere senz’altro utile consultare un professionista legale, così da evitare di incorrere in potenziali rischi o controversie.
La nullità del patto di prova comporta l’illegittimità del recesso intimato per mancato superamento della stessa e pertanto la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro con ogni conseguenza in merito al ripristino del rapporto nei termini e condizioni stipulate (contratto a temine e/o a tempo indeterminato).
Invero, con riferimento ai rapporti regolati dal regime delle cosiddette “tutele crescenti”, la Suprema Corte nella recentissima sentenza n. 20239/23 precisa che il recesso intimato senza un valido patto di prova è da ritenersi assoggettato alla tutela indennitaria di cui all’art. 3, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015. Nessuna reintegra, ma mera tutela risarcitoria da sei a trentasei mensilità.
La questione diviene ancora più complessa nel caso in cui il patto di prova coinvolga un soggetto beneficiario del sistema di collocamento obbligatorio previsto dalla Legge n. 68/1999. In questo caso, infatti, il patto – e l’eventuale recesso – deve essere necessariamente rapportato al tipo di invalidità e non correlato alla produttività. La libertà di recesso datoriale risulta, dunque, sottoposta a limiti più stringenti, non potendo essere influenzata da valutazioni negative circa il minore rendimento lavorativo scaturente dal tipo di invalidità, a pena di nullità del recesso stesso (Cass. n. 15942/2004).
La disabilità, è chiaro, non può mai costituire motivo di risoluzione del rapporto di lavoro, perché se così fosse si attuerebbe una forma di discriminazione.
Orbene, nel caso in cui il datore intenda recedere, quest’ultimo dovrà senz’altro motivare per iscritto il recesso per esito negativo della prova del lavoratore disabile, al fine di consentire al giudice di verificare – in caso di contestazione da parte del dipendente – la correttezza dell’esercizio del potere discrezionale, con riferimento alla valutazione della compatibilità delle mansioni assegnate al disabile rispetto alla propria condizione psicofisica.
In conclusione, tenuto conto della complessità della interpretazione giurisprudenziale sopra evidenziata, appare necessario stipulare un patto di prova ben definito ed a tal fine il supporto consulenziale di uno specialista risulta utile in un’ottica preventiva e di limitazione del rischio.
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