Recensione «La legge degli affari»

Superare la crisi dei business lawyer

Un’indagine di Luca Testoni sul ruolo storico e sociale della «categoria più riverita della Repubblica» propone una nuova prospettiva storico-salvifica per superare il declassamento degli avvocati d'affari italiani

09-02-2016

Superare la crisi dei business lawyer


Gli avvocati d’affari hanno oggi «una duplice storica opportunità. La prima è quella di affrontare un riassetto profondo del proprio settore per risolvere quelle inefficienze che, nei 10-15 anni precedenti […] non erano state risolte. La seconda è quella di contribuire, con questo riassetto, alla ricerca e alla affermazione di un nuovo modello di business e di relazioni sociali [per] ritornare a essere riconosciuti […] come quel punto di riferimento che sono per il Paese». È questa la via del riscatto con cui culmina l’analisi acuta e moderata proposta dal recente volume di Luca Testoni, Elena Bonanni e Felice Meoli, La legge degli affari (La nascita, le battaglie, il futuro dell’avvocati d’affari), Sperling & Kupfer, Ed. 2013. 

Il libro di Testoni, già direttore di TopLegal ora responsabile del sito Etica News, ispira paragoni con un lavoro precedente, Il codice del potere (Storie, segreti e bugie della più influente élite professionale) di Franco Stefanoni pubblicato nel 2007. E proprio come Stefanoni, il quale giocava sul doppio senso di ‘codice’, anche qui si fa leva nel titolo su un equivoco: il senso de facto e de jure di ‘legge’, ovvero, l’insieme di principi giuridici ed economici che hanno finora guidato l’evoluzione del sistema Paese e del mercato legale da una parte, e le nuove norme che ne dovranno educare i comportamenti futuri dall’altra.

Inevitabilmente, si ripercorrono nei due libri tappe storiche simili. Entrambi concordano che la più significativa trasformazione dell’élite coincide con la «rivoluzione» scaturita dalle privatizzazioni degli anni novanta quando il diritto diventava un servizio erogato da schiere di consulenti. Ma La legge degli affari ha una visione più ampia e sostanzialmente diversa. La storia aggiornata è sfociata in una «seconda rivoluzione» che per gli avvocati d’affari significa trovarsi di fronte a una doppia crisi d’immagine e di business. La categoria sconta sia la vicinanza a una classe dirigente e imprenditoriale screditata, sia il ridimensionamento degli affari grazie a mandati e parcelle ridotte, la diffusione della tecnologia, il sopravvento dei clienti e la fungibilità del servizio legale. In particolare, La legge degli affari sviscera lucidamente le conseguenze del fenomeno commodity, che svaluta non solo il servizio legale, aprendo una crisi economica-valoriale, ma anche la figura dell’avvocato come unico depositario del diritto, provocando così un’ulteriore crisi sociale-valoriale.

Mentre Stefanoni rimaneva in definitiva critico, denunciando gli avvocati del potere diventati a loro volta un potere (Il codice si conclude con le tristi vicende delle inchieste giudiziarie), Testoni prova a ragionare in chiave ricostruttiva. La seconda rivoluzione ha innescato un processo di normalizzazione che rimescola gli equilibri interni degli studi, ponendo fine alla crescita ininterrotta. Ma la normalizzazione, a sua volta, potrà servire alla rifondazione della categoria a condizione che sia in grado di perseguire un’attività sostenibile per il bene di tutti gli stakeholder.

Se il fulcro degli eventi raccontati da La legge degli affari è proprio questa normalizzazione – dopo di cui nulla sarà mai più uguale – il protagonista dell’indagine si rivela essere il prolungamento della «seconda rivoluzione» in una terza ancora da venire e che sorge come possibilità dalla normalizzazione: la rivoluzione etica, o della governance. 

La governance emerge come «risposta» alla duplice crisi degli avvocati d’affari. In quanto soluzione «statica», favorirebbe una maggiore efficienza dello «studio-azienda». Come soluzione «dinamica» per instaurare un nuovo modello di business e di relazioni sociali, invece, implicherebbe l’evoluzione verso lo «studio-pensante» o lo studio-istituzione. Tra le soluzioni dinamiche, la ricostituzione del plusvalore del servizio legale attraverso un «diverso capitale»: la deontologia; l’innovazione; e il corporate social responsability. Le direttive dello studio-istituzionale passano, inoltre, attraverso tre nuove figure professionali: l’avvocato «attivista», con un ruolo nelle occasioni di vita pubblica; l’avvocato «trasparente» che emerge dal paravento del «riserbo» per divulgare regole di governance e bilanci dello studio – perché si parla della legge degli affari ma quasi mai degli affari della legge – e, infine, l’avvocato «sociale» il quale si dedica a cause di valenza pubblica. 

Abituato ad una storiografia costruita sulla negazione e sul superamento di vari stadi precedenti – le tre età dell’avvocato (consigliore / rainmaker / consulente) come anche le tre fasi dell’attività legale (professione intellettuale / appalto di servizio / commodity) – il lettore meno attento potrebbe rappresentarsi la terza (auspicata) rivoluzione come quasi destinata a compiersi per la sola forza della storia. Ma ciò che si impara dalle trame economiche e legali raccontate dal libro è la sopravvivenza di logiche vetuste che le trasformazioni non riescono a cancellare. Il caso del rainmaker ne è un esempio. Se è vero che vi sia stata una maggiore «consapevolezza» dei disastri provocati ad alcuni studi dall’uscita dei fuoriclasse, capaci di contrassegnare i loro passaggi «con il proprio marchio di fabbrica», siamo tuttavia ben lontani dal tramonto della figura del rainmaker. Dopo Roberto Cappelli, altri soci come Mario Ortu, Luca Perfetti e Antonio Segni hanno costretto al rebranding dell’insegna. E rimane soprattutto un modello a cui ambiscono i giovani per cui il rainmaker lascia un’eredità culturale pensante. Inoltre, se il concetto di «squadra legale» ha guadagnato terreno perché «assai più consono ai nuovi scenari», tuttavia si potrebbe argomentare che la crisi economica non abbia fatto altro che intensificare le tendenze personalistiche per colmare il vuoto di certezze.

Il progetto di ricostruzione e di riscatto sarebbe troppo consolante se non fosse per la disillusione degli autori che abbracciano un ragionamento aprioristico sulla «storica opportunità» che si presenta. E in merito al futuro degli avvocati d’affari, non si tratta più di una «legge» bensì di una contingenza, frutto del concorso di circostanze che favoriscono il riassetto senza esserne la causa vera e necessaria né sufficiente a determinarlo. In questo passaggio risiede tutta l’importanza della rottura radicale e salvifica descritta. La normalizzazione ha comportato un ridimensionamento immediato e forzato e, come è accaduto nel passato, i fattori esterni hanno plasmato un’élite professionale essenzialmente ricettiva e passiva, pronta a impadronirsi della ricchezza, del potere e del prestigio offertole ma troppo spesso indifferente alle sue responsabilità e incapace di gestire i venti della modernità. Ora, per la prima volta, un passo decisivo può essere compiuto come volontà di cambiamento. Per rilanciare la figura e l’attività dell’avvocato d’affari, la «risposta» è stata tracciata. Rimane solo il dubbio su quanti la stiano cercando.


Articolo pubblicato in TopLegal marzo 2014


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