di Francesca Lai
21 maggio 2026: ecco il termine entro cui gli Stati membri dell’Unione Europea dovranno adeguarsi alla direttiva 2024/1203 relativa alla tutela penale dell’ambiente. Mentre il conto alla rovescia incalza, le aziende sono chiamate ad affrontare un cambiamento normativo epocale.
La tematica complessa è stata tratta in occasione dell’evento “Tutela ambientale, quale contributo delle imprese?” organizzato da TopLegal il primo ottobre scorso presso il Senato della Repubblica. Nel corso dell’evento è stato approfondito l’impatto della direttiva 2024/1203 sulle aziende, attraverso le voci di esperti legali, istituzioni e rappresentanti del mondo imprenditoriale.
Il convegno, moderato da Valentina Magri, content coordinator di TopLegal si è articolato in tre tavole rotonde, ognuna delle quali ha trattato un aspetto cruciale della nuova direttiva: i rischi penali, l’impatto sull’iter amministrativo e gli adempimenti di compliance per evitare danni ambientali.
La direttiva e i rischi penali
Enrico Napoletano, partner dello studio legale Napoletano, ha aperto così la prima tavola di discussione: «La direttiva 2024/1203 avrà un impatto significativo sull’intero sistema normativo italiano in materia di tutela ambientale. C’è un rischio reale di un eccessivo inasprimento delle sanzioni penali». Napoletano ha richiamato l'attenzione sul considerato n. 4 della direttiva, che mette in luce la necessità di rafforzare la conformità al diritto ambientale europeo mediante sanzioni penali effettive e dissuasive: «La direttiva sembra concentrarsi unicamente sulla repressione piuttosto che sulla prevenzione. Il grande assente in questa dialettica è proprio il principio della prevenzione amministrativa».
Il senatore Manfredi Potenti ha offerto una prospettiva istituzionale sull'evoluzione del quadro normativo europeo, sottolineando il legame tra la direttiva e l'attuale transizione ecologica ed energetica in corso. Secondo Potenti, «la direttiva riflette una crescente sfiducia verso gli strumenti di giustizia penale nazionali e punta a costruire un impianto normativo sovranazionale, volto a garantire la tutela ambientale attraverso sanzioni molto severe, tra cui la confisca di una parte del fatturato aziendale in caso di reati ambientali».
Il punto di vista delle imprese
Maria Cristina Breida, partner ed environment, climate change & sustainability leader di Ey Slt, ha offerto una visione pratica sugli effetti della direttiva dal punto di vista delle imprese. «L’inasprimento delle sanzioni non è la soluzione per risolvere i problemi legati alla tutela ambientale», ha dichiarato. Serve quindi un cambio di prospettiva: «Le aziende devono assumere un ruolo attivo nella protezione ambientale, ma non possono essere lasciate sole in questo processo». La partner di Ey Slt ha poi approfondito il tema delle sanzioni accessorie e delle sanzioni pecuniarie previste dalla direttiva, che non potranno essere inferiori nella loro misura massima al 3% (per i reati meno gravi) o al 5% (per i reati più gravi) del fatturato mondiale dell'azienda coinvolta o, in alternativa, ad un importo corrispondente a 24 milioni, nel primo caso, ovvero a 40 milioni di euro, nel secondo. «Questo rappresenta un notevole inasprimento rispetto al sistema attuale, dove il tetto massimo è di circa 1 milione e mezzo di euro», ha concluso.
L’impatto amministrativo sulla tutela ambientale: la sfida della burocrazia
Durante la seconda tavola rotonda Federico Peres, partner di B&P, ha affrontato il tema della complessità del diritto ambientale italiano anche per quanto riguarda l'interpretazione delle norme nelle controversie giudiziali: «Le imprese si trovano di fronte a decisioni difficili riguardanti, ad esempio, le bonifiche ambientali, stanti i contrasti della giurisprudenza amministrativa non solo interni ma anche rispetto a quella civile e avuto altresì presente il canone probatorio che caratterizza il processo penale differenziandolo da quello amministrativo quando si tratta di identificare il responsabile dell'inquinamento».
Anche Chicco Testa, presidente di Assoambiente, ha criticato l’attuale legislazione ambientale, definendola «divisiva e inadeguata per gestire le complesse dinamiche della gestione dei rifiuti e del riciclo». «Le differenze tra le normative regionali e i diversi approcci dei tribunali rappresentano un ostacolo per le imprese che operano a livello nazionale: serve un quadro normativo più stabile e omogeneo».
Matteo Maioli, responsabile affari legislativi di Confindustria Cisambiente, ha sottolineato i rischi legati alla complessità della normativa: «Nella direttiva c’è una sovrabbondanza di definizioni, che rischia di togliere certezza agli operatori economici complicando ulteriormente la situazione dell'Industria Italiana. Nell'interesse dell'Economia Nazionale sarebbe quindi opportuno evitare situazioni di contrasto normativo mediante una normativa più snella ed efficiente».
Per Marcello Iocca, vicepresidente di Assorisorse, «le imprese hanno capito che non possono prescindere dalla tutela ambientale. Il sistema di prevenzione delle emissioni va di pari passo con la progettazione integrata delle aziende - ha detto Iocca -. Le aziende dotate di autorizzazione Integrata Ambientale, o comunque dotate di autorizzazione regionale sono soggette a regolari controlli e ispezioni da parte delle autorità di controllo. Pertanto, ad oggi l’emanazione della direttiva non ha generato allarme presso le aziende associate».
Il ruolo della compliance: prevenzione e integrazione
La terza e ultima tavola rotonda ha esplorato gli adempimenti di compliance che le imprese dovranno affrontare per evitare danni ambientali. Secondo Milena Cirigliano, responsabile compliance integrata, antitrust e privacy del Gruppo Api, «il nuovo quadro normativo indurrà le aziende a potenziare i propri modelli di organizzazione gestione e controllo a prevenzione dei reati ambientali - ha detto -. La compliance avrà il compito di implementare quelli già esistenti, costruiti nell' ultimo ventennio in attuazione del Dlgs 231 /2001 e ss.mm.ii.; ma in questo esercizio si annida il rischio dell'over compliance». La metodologia della compliance integrata è utile a ridurre questo rischio poiché «nell'eliminare gli eccessi organizzativi, come rischi duplicati, procedure ipertrofiche, controlli compulsivi, previene i modelli di governance disfunzionali garantendo la migliore efficacia degli stessi».
Per Gianclaudio Fischetti, partner di Andersen Italy «la chiave del successo imprenditoriale oggi risiede nello sviluppo di una struttura di compliance idonea a prevenire il disallineamento rispetto alle normative di tutela ambientale».
Sonia Mazzucco, cofondatrice di Ethics, ha posto l’accento sull’importanza del modello organizzativo 231, che considera uno «strumento chiave per prevenire i reati ambientali. Le aziende che lo hanno già implementato dovranno rivederlo per adeguarsi alle nuove disposizioni della direttiva».
Infine, Francesca Muraca, head of litigation, legal administration & hse legal affairs di Snam, ha raccontato l’approccio dell’azienda e nello specifico dell’ufficio Criminal Litigation e Hse Legal Affair, costituito nell’ottobre 2021 (ufficio a supporto delle unità tecniche e delle posizioni di garanzia - datore di lavoro, gestore e titolare - di ciascuna società del Gruppo nell’esercizio delle rispettive responsabilità anche in tema ambientale). L’intervento si è basato su due aspetti «prevenzione e bilanciamento», secondo il rispetto non solo della normativa vigente, del rispetto dei codici di disciplina e/o etici ma anche del modello 231.
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