White & Case

Uno nel mucchio

Lo studio oggi rappresenta un caso di successo internazionale dopo aver abbandonato l’Italia nel 2008. Le chiavi: Michael Immordino e la razionalizzazione delle operazioni a livello globale

31-01-2016

Uno nel mucchio

Nel linguaggio del marketing è nota come unique selling proposition. Spesso utilizzato anche sotto forma del suo acronimo usp, si tratta di un modello teorico di funzionamento della pubblicità formulato da Rosser Reeves negli anni quaranta. E mira a identificare il beneficio distintivo che l’azienda offre ai suoi clienti tramite il brand e il prodotto, puntando su un unico ar­gomento di vendita, il cosiddetto selling point. In altre parole risponde alla domanda: «Perché sce­gliere questo servizio o prodotto e non quello della concorrenza?», contribuendo a definire il posizio­namento del brand. Il mercato legale non ha anco­ra grande familiarità con tali strategie, ordinarie per altri settori, e agli occhi di un potenziale clien­te spesso gli studi appaiono tutti uguali, così come le loro comunicazioni. Tuttavia, in maniera più o meno consapevole, qualche esempio c’è. E White & Case è uno questi.

Andata e ritorno 

Lo studio, fondato nel 1901 da Justin DuPratt White e George B. Case, era arrivato in Italia nel 2001. E seguendo la consuetudine delle firm internazionali cercò una testa di ponte per sbarcare nel Belpaese, identificandola nello studio Varrenti. Dopo un’aggressiva campagna acquisti, e le aperture delle sedi anche a Roma e Torino, la liaison non diede i frutti sperati. Così seguì un veloce ridimensionamento: nel 2005 si decise di concentrarsi solo su Milano, prima di perdere i due managing partner, ovvero Alberto Morano, che passò a guidare Sj Berwin e proprio Alessandro Varrenti, che confluì in Cba. Nel 2008 il colpo di spugna: in un comu­nicato stampa l’headquarter di White & Case dichiarava che « in questo momento il livello di investimenti richiesto per rendere efficiente l’operatività dell’ufficio milanese è più alto di quello che la law firm americana è disposta a sostenere ». Per i clienti italiani l’assistenza ve­niva garantita tramite il local counsel Massimo Galli. E fu così che Sean Geary, managing partner dello studio e unico in Italia ad avere la qualifica di socio equity, fece rientro a New York, presso gli uffici di Manhattan. Mentre gli altri quindici avvocati facenti parte del team, compresi i cinque local partner, furono costret­ti a cercare nuove opportunità.

Negli stessi anni il nuovo presidente Hugh Verrier, tuttora in carica dopo essere stato più volte rieletto, chiese una mano alla società di consulenza strategica McKinsey per riorga­nizzare il business dello studio. Le ricerche ef­fettuate fecero emergere uno studio che veniva percepito e identificato all’esterno attraverso attributi negativi: « white shoe », cioè elitario e conservatore, risultando indistinto dalla con­correnza, e « sweatshop », un luogo di lavoro dalle condizioni discutibili. Il risultato fu un nuovo assetto a matrice in 16 practice globali e 14 gruppi di lavoro. Verrier, che aveva trascor­so la maggior parte della sua carriera all’este­ro ( Indonesia, Turchia, Russia), credeva nella necessità di una maggiore integrazione tra le compagini dello studio sparse nel mondo, per rispondere alle nuove esigenze dei clienti. « Non possiamo essere uno studio globale se l’ 80% dei nostri professionisti è basato negli Stati Uniti », dichiarò in un’intervista alla International Bar Association nel 2011. E infatti lo studio ame­ricano rappresenta un caso raro nel panorama delle firm globali, impiegando oggi a New York circa 400 professionisti e a Londra 350. « Ab­biamo creato delle practice globali che rispec­chiano il lavoro cross- border; il bisogno delle practice di essere a cavallo tra singoli mercati riflette l’obiettivo che abbiamo sempre voluto raggiungere, cioè di collegare professionisti che non erano mai stati pienamente collegati », spiegava Verrier. La partnership globale era un pilastro di questa strategia. « Un partner dello studio, ovunque sia basato, è socio dell’intera partnership e non finisce in un profit pool se­parato. Questo ha permesso di mantenere l’in­tegrità del servizio ». Le chiusure degli uffici di Milano, Dresda e Bangkok, così come il taglio di 70 professionisti e 100 persone dello staff non furono tra le raccomandazioni di McKin­sey secondo quanto dichiarato da Verrier, né a posteriori possono essere etichettate come di­simpegno. La riorganizzazione contribuì infat­ti a razionalizzare le attività. In un certo senso seguendo il motto « less is more », meno è di più. 

L’era Immordino 

Nel 2011, in un contesto economico recessivo, un rinnovato White & Case decise di tornare a scommettere sull’Italia, trampolino di lan­cio per le seguenti aperture in Spagna e per il rafforzamento della practice francese. Ma lo fece secondo la nuova impostazione globa­le. Una sola sede, a Milano, poche practice di riferimento, in linea a quelle globali, su cui diventare benchmark nel mercato, e alcuni se­lezionati professionisti su cui puntare per una crescita organica. In questa occasione si scelse qualcuno che avesse già familiarità con il mer­cato italiano, e che avesse dato prova di poter conciliare con successo le logiche di uno stu­dio internazionale con quelle del nostro Paese attraverso un background multiculturale. E la decisione cadde sui contatti e l’esperienza di Michael Immordino, che aveva già guidato l’ar­rivo in Italia di Latham & Watkins. 

«White & Case è tornato in Italia con l’o­biettivo di consolidare la presenza in Euro­pa in particolare nei settori capital markets, sia sul fronte equity sia su quello debito, sul banking e sulle operazioni di m& a », spiegava allora l’unico socio dello studio. « Gli studi americani hanno una maggiore flessibilità e dinamismo e non intendono competere con operatori italiani offrendo full service in tut­ti i settori. Un fattore critico di successo sui mercati locali è senz’altro la profonda matrice culturale di respiro internazionale dei profes­sionisti che ci lavorano. Molte delle strutture finanziarie innovative hanno avuto origine negli Stati Uniti ed è importante avere accesso diretto a queste nuove tecniche legali ». Dopo soli due anni i propositi di Immordino porta­rono White & Case a raggiungere la prima fa­scia nei ranking di TopLegal per quanto con­cerne il debt capital markets e l’equity capital markets, e la seconda nel banking & finance. Rendendo estremamente chiara la unique sel­ling proposition dello studio. 

La traiettoria della crescita 


Oggi, dopo quattro anni, lo studio conta cir­ca 30 professionisti, e potrebbe continuare ad allargarsi, anche se è difficile immaginare dimensioni eccessive per una struttura che fa della flessibilità e della velocità due suoi punti di forza. I soci sono sette, di cui quat­tro equity: oltre Immordino, partecipano agli utili Ferigo Foscari (arrivato da Chiomenti), Iacopo Canino ( giunto da Giliberti Pappalet­tera Triscornia) e Paola Leocani (sbarcata da Allen & Overy). Gli altri soci, che ricoprono il ruolo di local partners, sono Nicholas Lasagna, Paul Alexander e la new entry Leonardo Graffi, arrivato pochi mesi fa da Freshfields Bruckhaus Deringer. In totale un socio ame­ricano, due soci inglesi e quattro italiani, oltre a una nutrita pattuglia di associate americani, rappresentano un chiaro segnale della volon­tà, anche in Italia, di essere uno studio con il Dna internazionale, e non solo uno studio con un end market nel nostro Paese.

« L’apertura dell’ufficio italiano è vista pro­prio in quest’ottica. Intendiamo assistere i clienti italiani dello studio tramite il nostro network internazionale. L’Italia diventa quindi una delle basi operative per agire all’interno di un’area geografica sovranazionale », diceva Immordino nel 2011. Il giro d’affari dello stu­dio oggi si divide principalmente tra capital markets e m& a. Se la prima tipologia di opera­zioni risulta più numerosa, la seconda è senza dubbio quella più profittevole. Entrambe, tut­tavia, confermano l’impostazione originaria di Immordino e hanno quasi sempre un respi­ro internazionale, per poter accompagnare la clientela in diverse giurisdizioni attraverso una gestione dei referral tra le sedi.

Tra le più recenti acquisizioni a cui ha lavo­rato White & Case segnaliamo la cessione del 75% di DeLclima da De’ Longhi Industrial a Mitsubishi Electric Corporation e l’acqui­sizione della quota di maggioranza di Cairn Capital da parte di Mediobanca. Lato merca­to dei capitali di debito si distingue il notevole attivismo nelle emissioni high yields, parti­colarmente profittevoli, oltre ai programmi Emtn ed Eurobond, le due emissioni del Btp Italia ( le più grandi emissioni obbligazionarie d’Europa), il retail bond per Cassa Depositi e Prestiti da 1,5 miliardi di euro e l’assistenza a Intesa Sanpaolo nell’ambito del programma Gmtn da 25 miliardi di dollari, l’unico funding programme americano di una banca italiana. Mentre nell’Equity capital markets, a parte la prospettata Ipo di Sorgente Res, lo studio ha seguito recentemente le quotazioni di Inwit, Ovs, Cerved, World Duty Free e Moleskine, 

l’Equity linked bond di Telecom Italia da 2 mi­liardi di euro ( la più grande emissione europea nel settore del primo semestre 2015), e diversi aumenti di capitale e block trades. 


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