Itempi d’oro per i dipartimenti di corporate finance che operano nel Belpaese sono finiti. Dopo la stagione della caccia alla balena – gli anni delle prime grandi privatizzazioni e quotazioni – quando un solo deal era sufficiente ad assicurare ricavi stellari nelle casse degli studi, e dopo quella della pesca dei tonni, in cui un piccolo plotone di operazioni più piccole ha mantenuto il saldo in attivo, gli studi sembrano non sapere più che pesci prendere in un business che, più che un mare, sembra essere diventato uno stagno. Anche la tanto declamata seconda ondata di privatizzazioni difficilmente fornirà una soluzione all’esiguità dei mandati. Se negli anni Novanta la prima stagione di dismissioni dei gioielli di Stato ha costituito il tesoretto di molti studi, oggi c’è poco da attendersi dal piano del governo. «Le basi d’asta fissate sono talmente basse da risultare ben difficile vedere le privatizzazioni come reali opportunità di business », sottolinea Andrea De Vido, presidente di Finint Investimenti.
Le dismissioni sono solo uno degli specchi in cui si riflettono le difficoltà incontrate dal corporate finance nel nostro Paese. Anche la consulenza sulle quotazioni, seppure non fungibile, sta diventando un servizio standardizzato. Basti pensare all’ipo di Fincantieri che si preannuncia come la più importante del 2014 e il cui valore è stato stimato in 1,2 miliardi: frutterà ai consulenti legali solo 160mila euro. Nel 2012 la quotazione di Cucinelli si stima ne abbia fatti guadagnare tra i 200 e i 250mila. Già la metà rispetto a quanto portavano in cassa agli studi le stesse operazioni fino al 2005.
D’altronde, oggi Piazza Affari è solo un puntino nel mercato globale. Pochi sul listino sono i fondi azionari globali, che preferiscono investire su Wall Street, che ha raggiunto i suoi massimi di sempre, e sulle borse dei paesi emergenti. La partita, insomma, si sta giocando all’estero.
«L’Italia è solo un di cui », sintetizza efficacemente Gennaro Imbimbo, responsabile legale societario del Fondo Italiano d'Investimento. Così come “ un di cui” sembrano destinati a diventare, nel panorama legale nostrano, quelli studi che non possono contare su rapporti su scala mondiale. Mentre il capo del’ufficio legale italiano di una nota banca inglese, non nasconde che « non si sta lavorando moltissimo sul finance perché non c’è grossa fame di business tricolore », secondo Savino Casamassima, general counsel Italia di Santander, « gli unici segnali di ripresa di un finance positivo italiano si possono intravedere nel private equity ». Ma fino ad oggi l’Italia è rimasto il fanalino di coda del private equity europeo: pesa il 3,6% sugli investimenti e lo 0,9% sulla raccolta, dicono gli ultimi dati relativi al 2012. Ora, quindi, la partita si giocherà sulla capacità di attrarre i nuovi investimenti messi a budget dai grandi fondi esteri per l’Europa, che inizia a mostrare segni di ripresa nel settore: Kkr le ha destinato 6 miliardi e Bain Capital 2,5.
Se il corporate finance italiano sarà legato a doppio filo agli investitori esteri, per avere un’idea sugli advisor che saranno in grado di intercettare i mandati legati al business tricolore, è utile passare in rassegna i consulenti che hanno seguito i flussi di capitale transitati nel Belpaese negli ultimi tempi. Un’analisi da cui emerge che a giocarsi la partita sarà uno sparuto gruppo di attori. Studi internazionali in primis.
Agli investitori Usa studi stelle e strisce
I più intransigenti nella scelta dei consulenti legali a cui affidarsi sono gli investitori americani, che quasi mai danno mandato ad advisor non battenti bandiera statunitense. A iniziare proprio da Kkr e Bain Capital. Il primo, dall’inizio del 2014, è stato protagonista di due operazioni. In febbraio, con la consulenza di Paul Hastings, ha dato disponibilità ad agire come partner al fianco di Intesa Sanpaolo e Unicredit, affiancate da d’Urso Gatti e Bianchi per i profili legali e da Di Tanno e associati per la parte fiscale, nella creazione di una sorta di bad bank, un veicolo di cartolarizzazione destinato alla gestione di un portafoglio di crediti difficilmente esigibili legati ad aziende del segmento corporate con potenzialità di sviluppo. In gennaio, invece, sempre affiancato da Paul Hastings, Kkr ha investito 100 milioni nel gruppo Argenta, azienda italiana attiva nel settore dei distributori automatici.
Sembrerebbe, invece, più interessato a vendere che non a investire in Italia Bain Capital, che con la consulenza dei soci di Gattai Minoli Bruno Gattai e Cataldo Giuseppe Piccarreta, è stato protagonista della maxioperazione di cessione delle quote detenute in Cerved. Se Bain Capital dovesse decidere di destinare parte dei 2,5 miliardi messi a budget per l’Europa sul suolo italico, Gattai Minoli avrebbe probabilmente un ruolo chiave, essendo il fondo un cliente consolidato di Gattai e Piccarreta, che nel 2010, ai tempi partner di Dewey & LeBoeuf, lo avevano affiancato anche nella cessione di Teamsystem.
Sempre rimanendo in territorio Usa, lo scorso febbraio il fondo di private equity Blackstone, assistito da Shearman & Sterling, da Carbonetti e Associati e da Simpson Thacher di New York, ha lanciato un’opa sul fondo immobiliare Atlantic 1 gestito da Idea Fimit. Lo stesso Simpson Thacher, insieme a Legance, aveva seguito Blackstone anche nel settembre 2013 per l’acquisto di Franciacorta Retail. Ancora un advisor americano, questa volta Latham & Watkins, è stato scelto da Star Holding, società interamente detenuta dal fondo Morgan Stanley infrastructure partners, per rilevare il 33,49% di Agorà Investimenti. E Latham & Watkins è stato protagonista anche al fianco del fondo Carlyle, sia in relazione all’acquisizione di Marelli Motoriche in relazione alla quotazione di Moncler, di cui il fondo detiene una partecipazione.
Altri investimenti imminenti potrebbero riguardare, poi, il settore Energy, in cui il private equity americano First Reserve è in lizza per aggiudicarsi una quota di maggioranza della newco in cui Edison ha fatto confluire i propri asset delle rinnovabili in Italia. Se ancora non è noto l’advisor legale di questa operazione, tra i papabili potrebbe esserci Cleary Gottlieb Steen & Hamilton, a cui First Reserve si è recentemente affidato per cedere al Fondo Strategico Italiano ( Fsi), assistito da Gianni Origoni Grippo Cappelli & partners, la quota del 45% detenuta in Ansaldo Energia.
I grandi capitali emiratini
Investitori dotati di una potenza di fuoco estremamente appetibile per il Belpaese sono, poi, i fondi della Penisola araba. Tradizionalmente di loro interesse è il settore lusso. ll fondo qatarino Mayhoola, assistito da Chiomenti, lo scorso febbraio ha acquisito il 65% del gruppo Forall Confezioni (affiancato dallo studio Dfa), proprietario del marchio di abbigliamento Pal Zileri. La seconda operazione a stretto giro per Mayhoola, che, sempre affidandosi a Chiomenti, nel 2012 aveva rilevato Valentino dal fondo Permira (assistito da Bonelli Erede Pappalardo e Freshfields). Ma i fondi emiratini non guardano solo alla moda. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati protagonisti di una serie di accordi con il Fondo strategico italiano. In febbraio è stato annunciato l’investimento congiunto di Fsi, affiancato da Clifford Chance, e del fondo sovrano Kuwait investment authority per la creazione di una newco da 2,5 miliardi con capitale all’ 80% di Fsi e al 20% del fondo kuwaitiano da destinare a favore delle aziende italiane. Sempre Fsi, nel marzo 2013, nuovamente affiancato da Clifford Chance, ha creato con il fondo sovrano Qatar holding, assistito da Cleary Gottlieb, una joint venture paritetica per investimenti in settori del made in Italy. In maggio lo stesso Qatar holding, affidandosi in quell’occasione a Shearman & Sterling, ha stipulato un accordo d’investimento per lo sviluppo di Porta Nuova a Milano. Mentre l’emiritana Ethiad, affiancata da Dla Piper, si appresta ad acquisire una quota in Alitalia. Una dotazione finanziaria pari a quella dei fondi arabi è appannaggio di Crescent Hydepark, società di investimento panasiatica con sedi a Singapore e Shanghai, che assistita da Legance ha acquisito il gruppo di moda Sixty.
Fondi europei ecumenici
Ad essere attivi in Italia anche alcuni fondi europei. In gennaio, Latham & Watkins ha assistito Dpe ( Deutsche private equity) nell’acquisizione di una partecipazione di maggioranza del gruppo ZellBios da Ergon Capital Partners (seguito da Freshfields). Negli stessi giorni Paul Hastings affiancava il fondo inglese Fortelus Capital nella cessione del brand di calzature e accessori di lusso Bruno Magli alla società indipendente svizzera di gestione di capitali Da Vinci Invest. Particolarmente attivo sul suolo italico anche l’inglese HarbourVest Partners, un fondo di fondi che dal 1990 ha destinato al Belpaese 613 milioni per quasi 200 aziende: investiti direttamente, attraverso fondi dedicati come l’Investindustrial di Andrea Bonomi, che è nel portafoglio clienti di Chiomenti (tra le operazioni recenti, la cessione di Ducati ad Audi) e la Bs di Luciano Balbo; investiti indirettamente, attraverso fondi paneuropei come Bc partners, Cvc e Permira. Tre fondi assistiti a più riprese da Chiomenti (esempio recente è l’acquisizione di Cerved), da Giliberti Pappalettera Triscornia, che ha affiancato Bc partners nell’ingresso in Coin e da Bonelli Erede Pappalardo, consulente privilegiato di Permira, assistito nella vendita di Mcs Italia al fondo d’investimento Emerisque brands, affiancato da Norton Rose. Lo stesso fondo che, sempre avvalendosi della consulenza di Norton Rose, lo scorso novembre ha rilevato i marchi minori di Moncler ( Marina Yachting, Henry Cotton’s, Coast Weber Ahaus e la licenza Cerruti 1881). Particolarmente interessati alle pmi sono, invece, i tedeschi. Come ha riportato recentemente il Financial Times infatti, nel corso del 2013, 23 pmi italiane sono state vendute proprio ai tedeschi a prezzi relativamente bassi. Una di queste operazioni ha portato la firma di Bonelli Erede Pappalardo, che ha assistito Halder, holding tedesca attiva in investimenti nelle pmi, nell’acquisizione di Bottega Manifatturiera Borse, azienda produttrice di articoli di pelletteria di lusso con sede a Firenze.
Investitori italiani: tanto prestigio, poca cassa
I fondi di private equity italiani, invece, sembrano quasi scomparsi. Nonostante abbiano a disposizione oltre 6 miliardi da investire, secondo i dati resi noti dall’Associazione italiana del private equity e del venture capital, anziché iniettare denaro in imprese che ne avrebbero bisogno, preferiscono restituire ai propri investitori il denaro raccolto. Tra gli investitori italiani, il protagonista indiscusso dell’anno scorso è stato Cassa Depositi e Prestiti ( Cdp), intervenuto sia direttamente, sia tramite il fondo da essa controllato (con il 16,52%) F2i, nell’acquisto di quote in Snam, Terna, Sace, Simest, Fintecna, Sea e Ansaldo Energia. Tra i consulenti principali di Cdp figurano i due italianissimi Gianni Origoni e Chiomenti. Il primo nel 2012 ha affiancato Cdp nell’acquisto delle partecipazioni in Sace e Simest, vincendo una gara al prezzo di saldo di 129mila euro. Mentre nel 2013, questa volta per 95mila euro, si è aggiudicato l’incarico di seguire il progetto Cdp Reti e l’acquisizione del controllo su Ansaldo da First Reserve e Finmeccanica. Operazione, quest’ultima, di cui non è nota la parcellazione. Chiomenti, invece, nel 2012 ha affiancato la Cassa nell’acquisizione di Fintecna; mentre nel 2013 l’ha assistita sul progetto Fondo Kyoto. Il primo mandato è valso a Chiomenti una parcella da 40mila euro, mentre il secondo ha fruttato 84mila euro. Insomma, per gli advisor di Cdp, da un punto di vista economico, c’è stato poco di cui gioire.
Mentre negli anni Novanta la vicinanza alla “cosa pubblica” ha costituito la fortuna di tanti studi, oggi – stando agli ultimi trend del mercato – non costituisce certo la gallina dalle uova d’oro per gli advisor legali. Certo il passato non determinerà il futuro, ma può fornire delle indicazioni di massima. E tutti i segnali dicono che, nell’assegnazione dei mandati, più che la vicinanza ai vertici del potere istituzionale, che ha costituito il driver tradizionale del mercato legale italiano, conteranno i rapporti degli studi su scala globale.
Dalla rassegna sulle principali operazioni e operatori che investono nel Belpaese emerge, infatti, un minimo comune denominatore: gli studi internazionali stanno acquisendo il controllo sugli investimenti stranieri in Italia, vale a dire quelli che portano maggiore marginalità agli studi. Il mercato sembrerebbe destinato a concentrarsi sempre più nelle mani di uno sparuto gruppo di operatori: quelli che hanno investito sulla creazione di una rete più globale. Mentre sono pochissimi i dipartimenti di finance e di corporate delle insegne tricolore che riescono a essere altrettanto competitivi: a emergere nelle operazioni, infatti, sono principalmente i tre big Bonelli, Gianni e Chiomenti. Allora se, come auspicabile, dopo anni di crisi i mercati fossero finalmente pronti per reinvestire in Italia, c’è da chiedersi quanto ciò possa costituire il nuovo El Dorado per gli studi italiani. Stando alle operazioni registrate finora, ben poco.
Articolo pubblicato in TopLegal marzo 2014.
TAGS
Norton Rose Fulbright, SLA Linklaters, Latham & Watkins, Legance, Paul Hastings, Gianni & Origoni, Giliberti Triscornia FrancescoGianni, AlbertoGiampieri, FabioCoppola, AlessandroTriscornia, MassimilianoCalabrò, GaiaGuizzetti, StefanoSciolla, RosarioZaccà, Robertode Bonis, CamillaPeri, FrancescaSepe, MarinoGhidoni, GianlucaGrossi, AlbertoVaudano, Maria CristinaStorchi Banca Imi, Bc Partners, BNP Paribas, Cassa Depositi e Prestiti, Coin, Finmeccanica, Fintecna, Mediobanca, Bank of America Merrill Lynch, Terna, Ubs, Unicredit, Natixis, PAI Partners, Ansaldo, F2i sgr, Financière Tintoretto, HSBC, Fincovin, Four Partners Advisory, Giorgione Investimenti, Icon, Moncler, Simest, Sace, Permira SGR, Investitori Associati, Snam, SEA Aeroporti Milano, Crédit Agricole, Cvc Capital Partners, Emerisque Brands, Mcs Italia, Halder