Corporate Finance

UNO STAGNO PER POCHI

Sono tanti gli specchi in cui si riflette la crisi del business italiano – privatizzazioni, quotazioni, finance puro e private equity nostrano. Una possibile ripresa potrebbe venire dall’estero ma difficilmente costituirà un nuovo El Dorado per gli studi tricolore.

01-03-2014

UNO STAGNO PER POCHI

Itempi d’oro per i dipar­timenti di corporate fi­nance che operano nel Belpaese sono finiti. Dopo la stagione della caccia alla balena – gli anni delle prime grandi privatizza­zioni e quotazioni – quando un solo deal era sufficiente ad assicurare ricavi stellari nelle casse degli studi, e dopo quel­la della pesca dei tonni, in cui un piccolo plotone di opera­zioni più piccole ha mantenu­to il saldo in attivo, gli studi sembrano non sapere più che pesci prendere in un business che, più che un mare, sembra essere diventato uno stagno. Anche la tanto declamata se­conda ondata di privatizzazio­ni difficilmente fornirà una soluzione all’esiguità dei man­dati. Se negli anni Novanta la prima stagione di dismissioni dei gioielli di Stato ha costituito il tesoretto di molti studi, oggi c’è poco da attendersi dal pia­no del governo. «Le basi d’asta fissate sono talmente basse da risultare ben difficile vedere le priva­tizzazioni come reali oppor­tunità di business », sottolinea  Andrea De Vido, presidente di Finint Investimenti.

Le dismissioni sono solo uno degli specchi in cui si ri­flettono le difficoltà incon­trate dal corporate finance nel nostro Paese. Anche la consulenza sulle quotazioni, seppure non fungibile, sta di­ventando un servizio standar­dizzato. Basti pensare all’ipo di Fincantieri che si prean­nuncia come la più importante del 2014 e il cui valore è stato stimato in 1,2 miliardi: frut­terà ai consulenti legali solo 160mila euro. Nel 2012 la quo­tazione di Cucinelli si stima ne abbia fatti guadagnare tra i 200 e i 250mila. Già la metà rispetto a quanto portavano in cassa agli studi le stesse opera­zioni fino al 2005.


D’altronde, oggi Piazza Affari è solo un puntino nel mercato globale. Pochi sul listino sono i fondi azionari globali, che prefe­riscono investire su Wall Street, che ha raggiunto i suoi massimi di sempre, e sulle borse dei paesi emergenti. La partita, insomma, si sta giocando all’estero.

«L’Italia è solo un di cui », sintetizza efficacemente Gennaro Imbimbo, responsabile legale societario del Fondo Italiano d'Investimento. Così come “ un di cui” sembrano destinati a diventare, nel pa­norama legale nostrano, quelli studi che non possono contare su rapporti su scala mondiale. Mentre il capo del’ufficio le­gale italiano di una nota ban­ca inglese, non nasconde che « non si sta lavorando moltis­simo sul finance perché non c’è grossa fame di business tri­colore », secondo Savino Casamassima, general counsel Italia di Santander, « gli unici segnali di ripresa di un finan­ce positivo italiano si possono intravedere nel private equi­ty ». Ma fino ad oggi l’Italia è rimasto il fanalino di coda del private equity europeo: pesa il 3,6% sugli investimenti e lo 0,9% sulla raccolta, dicono gli ultimi dati relativi al 2012. Ora, quindi, la partita si gio­cherà sulla capacità di attrarre i nuovi investimenti messi a budget dai grandi fondi este­ri per l’Europa, che inizia a mostrare segni di ripresa nel settore: Kkr le ha destinato 6 miliardi e Bain Capital 2,5.

Se il corporate finance ita­liano sarà legato a doppio filo agli investitori esteri, per avere un’idea sugli advisor che sa­ranno in grado di intercettare i mandati legati al business tri­colore, è utile passare in ras­segna i consulenti che hanno seguito i flussi di capitale tran­sitati nel Belpaese negli ultimi tempi. Un’analisi da cui emer­ge che a giocarsi la partita sarà uno sparuto gruppo di attori. Studi internazionali in primis. 


Agli investitori Usa studi stelle e strisce 
I più intransigenti nella scelta dei consulenti legali a cui affi­darsi sono gli investitori ame­ricani, che quasi mai danno mandato ad advisor non bat­tenti bandiera statunitense. A iniziare proprio da Kkr e Bain Capital. Il primo, dall’inizio del 2014, è stato protagonista di due operazioni. In febbraio, con la consulenza di Paul Hastings, ha dato disponibilità ad agire come partner al fianco di Intesa Sanpaolo e Unicredit, affiancate da d’Urso Gatti e Bianchi per i profili legali e da Di Tanno e associati per la parte fiscale, nella creazione di una sorta di bad bank, un veicolo di cartolarizzazione destinato alla gestione di un portafoglio di crediti difficil­mente esigibili legati ad azien­de del segmento corporate con potenzialità di sviluppo. In gennaio, invece, sempre affiancato da Paul Hastings, Kkr ha investito 100 milioni nel gruppo Argenta, azienda italiana attiva nel settore dei distributori automatici.

Sembrerebbe, invece, più in­teressato a vendere che non a investire in Italia Bain Capital, che con la consulenza dei soci di Gattai Minoli Bruno Gattai e Cataldo Giuseppe Piccarreta, è stato protagonista della maxioperazione di cessione del­le quote detenute in Cerved. Se Bain Capital dovesse decidere di destinare parte dei 2,5 miliardi messi a budget per l’Europa sul suolo italico, Gattai Minoli avrebbe probabilmente un ruo­lo chiave, essendo il fondo un cliente consolidato di Gattai e Piccarreta, che nel 2010, ai tem­pi partner di Dewey & LeBoeuf, lo avevano affiancato anche nel­la cessione di Teamsystem.

Sempre rimanendo in ter­ritorio Usa, lo scorso febbra­io il fondo di private equity Blackstone, assistito da Shearman & Sterling, da Carbonetti e Associati e da Simpson Thacher di New York, ha lanciato un’opa sul fondo immobiliare Atlantic 1 gestito da Idea Fimit. Lo stesso Simpson Thacher, insieme a Legance, aveva se­guito Blackstone anche nel settembre 2013 per l’acquisto di Franciacorta Retail. Ancora un advisor americano, questa volta Latham & Watkins, è stato scelto da Star Holding, società interamente detenuta dal fondo Morgan Stanley in­frastructure partners, per ri­levare il 33,49% di Agorà Inve­stimenti. E Latham & Watkins è stato protagonista anche al fianco del fondo Carlyle, sia in relazione all’acquisizione di Marelli Motoriche in relazione alla quotazione di Moncler, di cui il fondo detiene una partecipazione.

Altri investimenti immi­nenti potrebbero riguardare, poi, il settore Energy, in cui il private equity americano First Reserve è in lizza per aggiudi­carsi una quota di maggioran­za della newco in cui Edison ha fatto confluire i propri asset delle rinnovabili in Italia. Se ancora non è noto l’advisor le­gale di questa operazione, tra i papabili potrebbe esserci Cleary Gottlieb Steen & Hamilton, a cui First Reserve si è recentemente affidato per cedere al Fondo Strategico Italiano ( Fsi), assistito da Gianni Origoni Grippo Cappelli & partners, la quota del 45% de­tenuta in Ansaldo Energia. 


I grandi capitali emiratini 

Investitori dotati di una po­tenza di fuoco estremamente appetibile per il Belpaese sono, poi, i fondi della Penisola araba. Tradizionalmente di loro inte­resse è il settore lusso. ll fondo qatarino Mayhoola, assistito da Chiomenti, lo scorso febbraio ha acquisito il 65% del gruppo Forall Confezioni (affiancato dallo studio Dfa), proprietario del marchio di abbigliamento Pal Zileri. La seconda operazio­ne a stretto giro per Mayhoola, che, sempre affidandosi a Chio­menti, nel 2012 aveva rilevato Valentino dal fondo Permira (assistito da Bonelli Erede Pappalardo e Freshfields). Ma i fon­di emiratini non guardano solo alla moda. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati protagonisti di una serie di accordi con il Fondo strategico italiano. In febbraio è stato annunciato l’investimen­to congiunto di Fsi, affiancato da Clifford Chance, e del fon­do sovrano Kuwait investment authority per la creazione di una newco da 2,5 miliardi con capitale all’ 80% di Fsi e al 20% del fondo kuwaitiano da de­stinare a favore delle aziende italiane. Sempre Fsi, nel marzo 2013, nuovamente affiancato da Clifford Chance, ha creato con il fondo sovrano Qatar holding, assistito da Cleary Gottlieb, una joint venture paritetica per in­vestimenti in settori del made in Italy. In maggio lo stesso Qatar holding, affidandosi in quell’oc­casione a Shearman & Sterling, ha stipulato un accordo d’in­vestimento per lo sviluppo di Porta Nuova a Milano. Mentre l’emiritana Ethiad, affiancata da Dla Piper, si appresta ad acquisi­re una quota in Alitalia. Una do­tazione finanziaria pari a quella dei fondi arabi è appannaggio di Crescent Hydepark, società di investimento panasiatica con sedi a Singapore e Shanghai, che assistita da Legance ha ac­quisito il gruppo di moda Sixty


Fondi europei ecumenici 
Ad essere attivi in Italia an­che alcuni fondi europei. In gennaio, Latham & Watkins ha assistito Dpe ( Deutsche private equity) nell’acquisi­zione di una partecipazione di maggioranza del gruppo ZellBios da Ergon Capital Partners (seguito da Freshfields). Negli stessi giorni Paul Hastings af­fiancava il fondo inglese Fortelus Capital nella cessione del brand di calzature e accessori di lusso Bruno Magli alla so­cietà indipendente svizzera di gestione di capitali Da Vinci Invest. Particolarmente attivo sul suolo italico anche l’ingle­se HarbourVest Partners, un fondo di fondi che dal 1990 ha destinato al Belpaese 613 milioni per quasi 200 azien­de: investiti direttamente, at­traverso fondi dedicati come l’Investindustrial di Andrea Bonomi, che è nel portafo­glio clienti di Chiomenti (tra le operazioni recenti, la ces­sione di Ducati ad Audi) e la Bs di Luciano Balbo; investi­ti indirettamente, attraverso fondi paneuropei come Bc partners, Cvc e Permira. Tre fondi assistiti a più riprese da Chiomenti (esempio recente è l’acquisizione di Cerved), da Giliberti Pappalettera Tri­scornia, che ha affiancato Bc partners nell’ingresso in Coin e da Bonelli Erede Pappalardo, consulente privilegiato di Per­mira, assistito nella vendita di Mcs Italia al fondo d’inve­stimento Emerisque brands, affiancato da Norton Rose. Lo stesso fondo che, sempre avvalendosi della consulenza di Norton Rose, lo scorso no­vembre ha rilevato i marchi minori di Moncler ( Marina Yachting, Henry Cotton’s, Co­ast Weber Ahaus e la licenza Cerruti 1881). Particolarmente interessati alle pmi sono, invece, i tedeschi. Come ha riportato recentemente il Fi­nancial Times infatti, nel cor­so del 2013, 23 pmi italiane sono state vendute proprio ai tedeschi a prezzi relativamen­te bassi. Una di queste ope­razioni ha portato la firma di Bonelli Erede Pappalardo, che ha assistito Halder, holding tedesca attiva in investimenti nelle pmi, nell’acquisizione di Bottega Manifatturiera Borse, azienda produttrice di articoli di pelletteria di lusso con sede a Firenze. 


Investitori italiani: tanto prestigio, poca cassa 
I fondi di private equity ita­liani, invece, sembrano quasi scomparsi. Nonostante ab­biano a disposizione oltre 6 miliardi da investire, secon­do i dati resi noti dall’Asso­ciazione italiana del private equity e del venture capital, anziché iniettare denaro in imprese che ne avrebbero bi­sogno, preferiscono restituire ai propri investitori il denaro raccolto. Tra gli investitori italiani, il protagonista in­discusso dell’anno scorso è stato Cassa Depositi e Prestiti ( Cdp), intervenuto sia diret­tamente, sia tramite il fon­do da essa controllato (con il 16,52%) F2i, nell’acquisto di quote in Snam, Terna, Sace, Simest, Fintecna, Sea e Ansaldo Energia. Tra i consulenti principali di Cdp figurano i due italianissimi Gianni Ori­goni e Chiomenti. Il primo nel 2012 ha affiancato Cdp nell’acquisto delle partecipa­zioni in Sace e Simest, vincen­do una gara al prezzo di saldo di 129mila euro. Mentre nel 2013, questa volta per 95mila euro, si è aggiudicato l’incari­co di seguire il progetto Cdp Reti e l’acquisizione del con­trollo su Ansaldo da First Re­serve e Finmeccanica. Opera­zione, quest’ultima, di cui non è nota la parcellazione. Chio­menti, invece, nel 2012 ha af­fiancato la Cassa nell’acqui­sizione di Fintecna; mentre nel 2013 l’ha assistita sul pro­getto Fondo Kyoto. Il primo mandato è valso a Chiomenti una parcella da 40mila euro, mentre il secondo ha fruttato 84mila euro. Insomma, per gli advisor di Cdp, da un punto di vista economico, c’è stato poco di cui gioire.

Mentre negli anni Novanta la vicinanza alla “cosa pub­blica” ha costituito la fortuna di tanti studi, oggi – stando agli ultimi trend del merca­to – non costituisce certo la gallina dalle uova d’oro per gli advisor legali. Certo il passato non determinerà il futuro, ma può fornire delle indicazioni di massima. E tutti i segnali dico­no che, nell’assegnazione dei mandati, più che la vicinanza ai vertici del potere istituzio­nale, che ha costituito il driver tradizionale del mercato legale italiano, conteranno i rapporti degli studi su scala globale.

Dalla rassegna sulle princi­pali operazioni e operatori che investono nel Belpaese emer­ge, infatti, un minimo comune denominatore: gli studi inter­nazionali stanno acquisendo il controllo sugli investimenti stranieri in Italia, vale a dire quelli che portano maggiore marginalità agli studi. Il mer­cato sembrerebbe destinato a concentrarsi sempre più nelle mani di uno sparuto gruppo di operatori: quelli che hanno in­vestito sulla creazione di una rete più globale. Mentre sono pochissimi i dipartimenti di finance e di corporate delle insegne tricolore che riescono a essere altrettanto competi­tivi: a emergere nelle opera­zioni, infatti, sono principal­mente i tre big Bonelli, Gianni e Chiomenti. Allora se, come auspicabile, dopo anni di crisi i mercati fossero finalmente pronti per reinvestire in Ita­lia, c’è da chiedersi quanto ciò possa costituire il nuovo El Dorado per gli studi italiani. Stando alle operazioni regi­strate finora, ben poco.

Articolo pubblicato in TopLegal marzo 2014. 

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