Come si compongono i board a distanza di cinque anni dalla Legge Golfo-Mosca, che nel 2012 ha introdotto le quote di genere nella composizione dei consigli di amministrazione delle società quotate e partecipate pubbliche? Valore D – l’associazione di imprese che promuove la diversità, il talento e la leadership femminile nelle società – ha intrapreso un percorso di monitoraggio annuale sulla presenza delle donne nei board. Insieme al Politecnico di Milano e ad Aub, l’associazione – che dal giugno 2016 è presieduta dal general counsel di Coca-Cola Europe Sandra Mori (in foto) – ha lanciato un Osservatorio dedicato alle donne nei Cda, con lo scopo di raccogliere i dati sulle aziende quotate, non quotate e pubbliche in modo da fornire un quadro annuale esaustivo della presenza quali/quantitativa femminile negli organi societari.
Oggi, nella cornice di Palazzo Mezzanotte, sede di Borsa Italiana, è stata scattata una fotografia sullo stato dei fatti in occasione del convegno “S.m.a.r.t. boards for smart companies”. Dal 7 al 30%, è stato questo il significativo incremento delle quote rosa nei board in cinque anni. Con una presenza di 687 donne nei board, l’obiettivo della legge italiana, quindi, sembrerebbe ampiamente raggiunto. Ma nelle pieghe dei dati presentati si mostrano ancora alcuni nervi scoperti.
Un’analisi più approfondita rivela che l’aumento si concentra soprattutto nella componente indipendente del Cda (circa il 68% delle donne ricoprono la carica di consiglieri indipendenti). Ben inferiore, invece, è la presenza femminile fra gli executive. Analizzando la composizione dei vertici aziendali, se da una parte il numero delle presidenti a Piazza Affari è salito a 21 (3,1% contro il 2,5% del 2013), quello dei Ceo “rosa” è salito in termini assoluti (17 contro 13), ma sceso in percentuale dal 3,2% al 2,5 per cento. Il tema più annoso riguarda poi le remunerazioni, con una differenza remunerativa tra uomini e donne che negli ultimi anni nelle società large cap è arrivata a toccare punte del 300%.
Qual è l’identikit delle donne che siedono nei board? Sono in media più giovani degli uomini (50,9 anni contro 58,9) e sono meno spesso legate alla famiglia azionista di maggioranza (13,1 contro il 16,9% degli uomini). Sono, inoltre, più spesso laureate (88,5 contro 84,5%) e più spesso hanno un’istruzione post-laurea (29,7 contro 16,7%). La maggior parte di loro possiede una laurea in giurisprudenza; mentre sono poche le manager proprio a causa della menzionata scarsa presenza femminile fra gli executive delle società. «Come ex executive e membro di board non posso che rammaricarmi per una presenza così esigua», ha commentato Giorgina Gallo, consigliere indipendente di Intesa Sanpaolo, Telecom e Autogrill, aggiungendo che «le donne che siedono nei Cda in veste di consigliere dovrebbero spingere in tal senso».
Una delle principali incognite per il futuro riguarda lo scadere della legge Golfo-Mosca (valida per tre rinnovi): il cambiamento all’interno dei board avrà efficacia nel tempo o la componente femminile tornerà a scendere? «Maggiore è la diversità dei board e migliore è la governance, non solo se si tratta di diversità di genere» ha sottolineato Carmine Di Noia, commissario Consob, che non crede che «scaduta l’efficacia della legge si torni indietro».
La stagione assembleare che vedrà coinvolti molti board (in aprile si libereranno il 29% dei posti) sarà un banco di prova importante. «La fase attuale di valutazione propedeutica al rinnovo è fondamentale e in questa fase i presidenti delle società potranno giocare un ruolo importante per accendere scintille “smart” nei futuri board», ha apostrofato Stefania Bariatti, presidente di Sias e of counsel di Chiomenti. Là dove la smartness dei board dovrebbe essere trainata non soltanto da una presenza femminile più radicata e diffusa, ma anche da temi quali l’internazionalizzazione, l’innovazione tecnologica e la sostenibilità (non solo ambientale, ma soprattutto sociale e finanziaria). Così come dovrebbe richiedere il lavoro congiunto di tutti gli stakeholders. Secondo Bariatti, «board, azionisti (anche quelli di minoranza) e management dovrebbero remare tutti nella stessa direzione: quella di creare valore per la società. E la creazione del valore non può prescindere da board più smart».
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