Scenari

Whistleblowing, parola al giuslavorista

Luci e ombre della nuova normativa raccontate a TopLegal da Luca Failla, co-managing partner di LabLaw

18-04-2018

Whistleblowing, parola al giuslavorista



Un soffio in un fischietto, come quello dell’arbitro che ferma il gioco sporco. È il whistleblowing, ormai disciplinato anche in Italia dopo l'entrata in vigore alla fine del 2017 della legge 179, che prevede nuove tutele per chi, all’interno di una società pubblica o privata, decide di segnalare un comportamento irregolare di cui è stato testimone. TopLegal ha analizzato luci e ombre del nuovo quadro normativo sotto il profilo giuslavoristico, intervistando Luca Failla (in foto), co-managing partner di LabLaw.


Ci sono ambiti della legge che avrebbero bisogno di chiarimenti aggiuntivi? Se sì, quali e perché?
La legge n. 179/2017 costituisce un passo avanti nell’introduzione di nuove tutele per il dipendente che decida di segnalare un comportamento illecito scoperto sul posto di lavoro. 
Restano tuttavia alcuni interrogativi.  In primis, evidenti risultano le differenze tra pubblico e privato. Per la Pa la norma è dettagliata, analitica e immediatamente operativa, anche perché interviene a modificare una norma già presente nel nostro ordinamento - l’art. 54bis del TU sul pubblico impiego. Per il settore privato si limita a individuare linee guida di carattere programmatico essenzialmente riguardanti l’adeguamento dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/2001, senza peraltro individuare un termine a riguardo. 
Le ragioni di tale diversità risiedono sicuramente nella priorità che il legislatore ha voluto dare alla emersione dei comportamenti illeciti nel settore pubblico, particolarmente sensibile quando vengano in gioco non solo il buon andamento della Pa ma il rischio che venga compromessa l’attività economica - pubblica e privata – dell’intero Paese. 
Restano, però, alcune perplessità, soprattutto perché se per il settore pubblico è sufficiente la semplice segnalazione di “condotte illecite”, nel privato la disciplina si rivela molto più rigorosa e stringente, dovendo le segnalazioni essere “circostanziate” e “fondate su elementi di fatto precisi e concordanti”. Il che potrebbe avere un effetto deflattivo di tali denunzie. 


Nella legge viene stabilito il divieto di atti di ritorsione o discriminatori (quali ad esempio mutamento di mansioni, licenziamento ecc.) nei confronti del soggetto segnalante per motivi collegati direttamente ed indirettamente alla segnalazione. Come contemperare questa esigenza con la legittima necessità di licenziare o riallocare le risorse umane in relazione alle necessità aziendali?
Il divieto di porre in essere atti ritorsivi o discriminatori nei confronti del soggetto “segnalante”, è principio di carattere generale nel nostro ordinamento.
Al netto di tale presupposto, è utile evidenziare come le categorie tradizionali del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, mantengano la propria autonoma attuabilità anche nei confronti del dipendente “segnalante”, risultando il licenziamento anche in questo caso pienamente legittimo ove fondato su regolari presupposti, dimostrabili poi eventualmente in giudizio. 
L’elemento distintivo nell’ambito qui considerato è invece di natura processuale: in caso di licenziamento del denunziante è prevista un’inversione dell’onere della prova per cui - se tradizionalmente è il lavoratore a dover provare la discriminatorietà o il motivo illecito unico determinante il licenziamento – nei casi collegati a segnalazioni di illeciti, come quelli che stiamo trattando, è il datore a dover dare prova che il licenziamento (o il provvedimento disciplinare) non ha nulla a che vedere con l’avvenuta denuncia, ma trova il proprio fondamento in cause del tutto indipendenti da essa. 

Come tutelarsi per evitare possibili comportamenti distorsivi derivanti dalla legge, come denunce fatte “ad hoc” per evitare un licenziamento?
La norma fornisce alcuni meccanismi giuridici di tutela, prevedendo espressamente l’obbligo di introdurre sanzioni - all’interno del sistema disciplinare ex modello 231 - nei confronti del dipendente che effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelino infondate (per la Pa, il fatto deve essere accertato anche solo con sentenza di primo grado e quindi non definitiva). 
Tale previsione, che si accompagna – nel settore privato - all’obbligo di effettuare segnalazioni “circostanziate” e “fondate su elementi di fatto precisi e concordanti” ha l’obiettivo di contrastare segnalazioni del tutto strumentali, finalizzate - in  ipotesi - a proteggersi da un potenziale licenziamento ma vi è altresì il rischio che vada a fungere da  deterrente rispetto a segnalazioni “reali”, dal momento che il dipendente potrebbe avere comunque timore di esporsi a responsabilità di sorta.  

Quale il ruolo del giuslavorista nella ridefinizione dei modelli 231?
Nonostante la norma non fissi per il settore privato un termine per l’adozione delle procedure, le aziende necessiteranno dell’intervento di esperti per implementare i modelli della 231/2001, come anche per adeguare “le procedure di whistleblowing” che alcune aziende – soprattutto multinazionali – hanno già in questi anni adottato, ben prima dell’entrata in vigore della legge n. 179/2017. 
È quindi necessario che l’azienda definisca all’interno del modello di organizzazione, gestione e controllo il perimetro delle condotte costituenti “un rischio per l’integrità dell’ente”. Ciò andrà certamente a fungere da utile punto di riferimento per il dipendente, evitando che la procedura venga utilizzata impropriamente per mezzo di segnalazioni di circostanze attinenti alla sfera meramente personale del dipendente ovvero ultronee rispetto all’esigenza di tutela dell’integrità dell’ente.
Un ulteriore profilo affidato al vaglio del giuslavorista sarà poi quello della tutela della riservatezza del “segnalante” nel quadro del procedimento disciplinare nei confronti del “segnalato”: se per il pubblico, è previsto che (a fronte del consenso del “segnalante”), la sua identità possa essere rivelata a tutela del diritto di difesa dell’incolpato, nel privato non esiste analoga disposizione. Di qui, la necessaria cristallizzazione di una disciplina che contemperi l’esigenza di riservatezza del segnalante con le necessità di trasparenza del procedimento disciplinare e il principio di difesa da parte del soggetto nei cui confronti viene promossa l’azione disciplinare.

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