di Marco Michael Di Palma
Lentamente, le nostre città si stanno riaprendo nella speranza che l'emergenza sanitaria sia stata contenuta e che si possa far ripartire l'economia. Stando a quanto abbiamo appreso negli ultimi mesi, l'attività professionale non si è fermata, anche se solo una frazione del lavoro svolto è stata trasformata in timesheet fatturabile. Tra le misure di contrasto, gli studi hanno rinegoziato i contratti d'affitto, ridotto i compensi degli avvocati e sospeso bonus e dividendi. Il personale di supporto è diventato cassa integrato. Alcuni stanno anche valutando la propria dematerializzazione. Le crisi passano ma il telelavoro resta.
Le previsioni per il 2020 non sono consolanti. Confindustria stima un contrazione dell’economia del 6%, esito peggiore del 2009. Tutti gli studi sono alle prese con il calo di incassi, ma questo calo non colpirà tutti con la stessa intensità. Quando si ritira la marea si scopre chi stava nuotando nudo, diceva Warren Buffett. Molti temono che ce ne vorrà perché la marea scenda del tutto. Dopo il crollo di Lehman Brothers, sono passati altri quattro-cinque mesi prima che gli studi iniziassero a mandare a casa gli avvocati.
Come si presentano le insegne italiane di fronte alla più profonda crisi della storia? Non è dato a sapere quanti studi legali abbiano fatto ricorso a linee di credito prima della pandemia, né quanti si indebiteranno in futuro. Voler tentare una previsione credibile sulla base dei dati finanziari comunicati in queste settimane a TopLegal è impresa irrealizzabile. I numeri sono inconsistenti e in ogni caso non certificati. La mistificazione sul financial reporting ha tra gli inconvenienti anche quello di impedire la nascita di un osservatorio attendibile. In un momento come questo sarebbe utile poter stabilire metriche e parametri di riferimento tali da consentire una comparazione con i migliori attori e soprattutto poter apprendere da questi ultimi per migliorare e diventare più solidi.
Restano tuttavia alcune ipotesi ragionevoli. Il primo barometro del grado di esposizione va cercato nell’incidenza dei costi fissi. La voce principale con cui fare i conti rimane sempre la forza lavoro. Maggiore la leva soci, maggiore il livello di esposizione. Negli ultimi cinque anni, il tasso di crescita dei soci equity ha superato ampiamente il fatturato degli studi. Sono aumentate anche le compagini, ma la media del fatturato per professionista è diminuita fino a dimezzarsi in alcuni casi. Si può altrettanto ipotizzare che l’esposizione sarà maggiore anche per gli studi che hanno puntato su grandi volumi e margini risicati. Quando la marea è alta e l’economia gira, questo modello può funzionare. In tempi di crisi, basta poco per spingere i conti in rosso.
Una volta abbassati dividendi e stipendi, azzerate le spese per viaggi e rappresentanza e annullati i budget per comunicazione e marketing, gli sforzi per preservare la liquidità sono soggetti alla legge dei rendimenti decrescenti. Rinunciare al boccione d'acqua o alla macchina del caffè non porta molto lontano nella lotta per sopravvivere, e certo non potrà ripristinare i profitti persi dei partner. Si arriva sempre e comunque alla prossima scadenza per il versamento dei salari, a prescindere dal fatto che le entrate siano in ripresa o meno. Di fronte all’insostenibilità, come fare?
Quando l'intera base di costo è determinata dagli emolumenti, si fa presto a chiedersi se lo studio abbia troppi avvocati. In tali momenti, come fa notare l’ex senior partner di Allen & Overy David Morley, scatta solitamente quello che gli psicologi chiamano "evitamento", il meccanismo di difesa per aggirare un problema. Quando si tratta di un dimagrimento della compagine, si guarda subito al personale di supporto – marketing, risorse umane, It e finanza – la cui esistenza in tempi normali viene a malapena riconosciuta. Questa scelta, come sostiene Morley, è sempre sbagliata. Occorrerebbe licenziarne quattro, cinque, forse sei dipendenti per risparmiare il costo medio di un avvocato. Concentrarsi sulle divisioni di supporto non risolve il problema. Secondo Morley, serve un riordino coraggioso per mettere in salvo lo studio. Occorre mandare via i professionisti costosi improduttivi.
La ricetta di Morley non ha precedenti, men che meno in Italia. Dieci anni fa, i nostri studi si orientavano secondo una logica attendista. I soci accentravano il lavoro svolto prima dai collaboratori, mascherando l’improduttività con l'aumento del proprio fatturato nella speranza di tempi migliori. Il risultato per le principali insegne è stato un crollo degli utili stimato del 26% tra il 2008 e il 2012, con picchi individuali oltre al 30%. Nello stesso periodo, il mercato registrava una frammentazione galoppante e l'abbandono record dei soci.
Prima che scoppiasse la pandemia, il comparto era già alle prese con più sfide: eccedenza dell'offerta, pressioni sulle parcelle, scarsa istituzionalizzazione, successioni faticose, intelligenza artificiale in arrivo. In un mercato poco consolidato e in assenza di prospettive alternative, alcuni studi erano destinati a sciogliersi. I fenomeni sorti nell'ultima crisi quantomeno si ripeteranno nei prossimi anni accompagnati da una nuova normalizzazione. L'attendismo potrebbe rivelarsi molto più costoso questa volta e non solo in termini di utili ridotti.