Governance

L'elefante nella stanza

In Italia gli studi stanno attuando (o hanno attuato) diversi approcci alla successione. Sotto la lente i casi di BonelliErede, Carnelutti, Chiomenti, Gianni & Origoni, Macchi di Cellere Gangemi, Negri-Clementi, Nctm, Pavia e Ansaldo, Pedersoli, Piro

23-04-2021

L'elefante nella stanza


La nuova era avviata dalla pandemia ha segnato il tramonto di un’epoca nella gestione dello studio: alcuni modelli, che potevano resistere in passato, oggi sono ancor più a forte rischio sopravvivenza. Le avvisaglie si sono registrate nel 2020 con le prime fusioni e acquisizioni in un sistema che da anni si interrogava sul consolidamento, ma che non aveva mai trovato la spinta e la ricetta giusta per metterlo in pratica. Parallelamente, si è assistito a tendenze centrifughe: spin off da grandi studi, rotture di sodalizi ultradecennali, uscite di rilevanti name partner. In questo quadro, l’elefante nella stanza degli avvocati si chiama passaggio generazionale.

Il tema racchiude in sé una molteplicità di questioni connesse con le difficoltà interne non risolte degli studi: la pianificazione di lungo periodo, l’accompagnamento alla leadership, l’istituzionalizzazione del potere. Ma tutti concorrenti a creare valore di lungo periodo per lo studio, come fa notare John Maxwell nel libro "The 21 Irrefutable Laws of Leadership": il valore che rimane di un leader si misura dalla sua successione.

Il modello per una buona successione
Il tema in Italia si conferma spinoso. Non solo per gli studi. Anche per le aziende la materia risulta ancora tra quelle meno esplorate. Tuttavia, la visibilità sui meccanismi di successione sta assumendo sempre più rilevanza per gli investitori in ottica di lungo periodo. Sul tavolo delle buone pratiche figura non solo l’esistenza o meno di un piano di successione (per il Ceo ma anche per i top manager), ma anche la sua disclosure agli stakeholder e le iniziative adottate al Cda.

Per esempio: il board ha discusso di una pianificazione della successione di medio-lungo periodo (5 anni)? Ha identificato un Ceo ad interim in caso di emergenza? Ha identificato una pipeline di candidati interni? Ha svolto un’analisi sulle competenze per le future esigenze strategiche?

Ecco che per piano di successione non si intende la mera spiegazione di un processo di nomina, né la sola indicazione dei nominativi dei successori. Si tratta dell’insieme di regole, principi e tempistiche per pianificare concretamente la successione delle figure chiave esistenti in modo che risponda alle esigenze future. Per uno studio legale, la lettura è doppia: da un lato c’è il tema delle capacità manageriali di conduzione dello studio, dall’altro quello della successione dei clienti. La successione è infine condizionata dalla visione strategica che lo studio ha per la propria crescita: interna, lateral o M&A.

Alcuni temi chiave per le aziende sono rilevanti anche per gli studi legali: la pianificazione di lungo periodo, l’individuazione metodica di successori e lo sviluppo delle seconde linee, la selezione e l’individuazione delle competenze strategiche, l’assegnazione di ruoli chiari e definiti a chi è a capo del decision making. Pianificare la successione rappresenta un esercizio che richiede regole e lungimiranza. E che, per l’assetto peculiare delle insegne, si intreccia con un secondo rilevante snodo di governance: l’istituzionalizzazione. Per uno studio legale, quindi, il tema del passaggio generazionale riguarda in primo luogo le misure e le strutture idonee per spersonalizzare la struttura e per assicurare alle sue componenti un assetto sostenibile a lungo termine.

All’estero, gli studi legali hanno adottato un insieme di regole o prassi per accompagnare il processo, facilitato dal maggiore grado di istituzionalizzazione raggiunto. Una pianificazione del passaggio generazionale di successo prevede infatti che l’organizzazione sia strutturalmente pronta a vivere (e non a sopravvivere) oltre il suo fondatore. Questo significa fare strada per tempo alla condivisione dei poteri e attuare uno spostamento dell’asse decisionale dal singolo alla squadra, riducendo l’impostazione verticistica dello studio. Il risultato sarà un modello organizzativo di tipo orizzontale per unità e aree di competenza che fanno capo a specifici responsabili.

In secondo luogo, il passaggio generazionale non può prescindere dalla necessità di preservare il patrimonio relazionale dello studio in modo da garantire il prosieguo dei rapporti con un cliente anche al momento del ritiro o del venire meno del socio che li ha originati. Nella gestione dei clienti entra maggiormente in gioco la necessità di una pianificazione di lungo periodo. Il perché arriva dall’approccio inglese con la regola dei "tre win": tutti e tre gli attori in gioco—studi legali, avvocati e clienti—devono essere soddisfatti.

La pianificazione richiede che i clienti ricevano servizi di qualità durante tutto il processo di transizione che, secondo le stime degli studi anglosassoni, non può essere inferiore ai tre anni. Di solito, però, le insegne anglosassoni iniziano a lavorare al passaggio di consegne ben prima, circa cinque anni dall’effettiva uscita di un socio. E lo possono fare perché hanno regole chiare e definite su quando i partner si ritireranno. Per gli studi più piccoli e meno istituzionalizzati, il processo di creazione di un passaggio generazionale potrebbe arrivare a richiedere anche dieci anni.

Nella gestione efficace ed equa del ritiro dei soci risiede forse l’aspetto che riflette la maggiore distanza tra l’esperienza anglosassone e quella italiana. In Italia non esiste un’età per il ritiro. Gli studi più strutturati hanno deciso di emulare i modello anglosassone posizionando il limite d’età tra i 62 e i 75 anni, ma la facilità con cui si è ricorsi alle proroghe indebolisce l’efficacia della previsione. Soprattutto perché queste proroghe si accompagnano ad altre cattive prassi, come un’applicazione delle regole a volte troppo personalizzata (ossia che riguarda tutti meno che i fondatori) e la tendenza a lasciare nelle stesse mani i clienti più prestigiosi.

In Inghilterra gli studi fissano invece con ragionevole attendibilità l’età del ritiro tra i 58 e i 62 anni. Raggiunta questa età, i soci sono costretti ad uscire dalla partnership scegliendo se lasciare lo studio o mantenere rapporti in qualità di of counsel. Nel primo caso, il partner riceve la restituzione della capital contribution con gli interessi e usufruisce del fondo pensionistico privato dell’insegna (calcolato in base ai punti equity ed eventualmente anche dell’avviamento professionale lasciato dal socio). Nel secondo caso, mantiene un ruolo ridotto nello studio e continua a svolgere l’attività professionale, eventualmente lavorando al passaggio di clientela su un lasso di tempo ancora più esteso.

In Italia, il ritiro del socio è frenato dall’approccio personalistico che caratterizza la gestione del cliente e che si riflette sulle aspettative del cliente. Con l’uscita di un socio senior lo studio rischia di perdere una fetta di fatturato importante perché il cliente è abituato ad associare la seniority alla garanzia di qualità. A complicare ulteriormente il cambio generazionale, un dato strutturale: mancano modelli compensativi adeguati a garantire al socio anziano uscente il riconoscimento corretto per l’avvio professionale. A questa criticità si aggiungono le complicazioni legate alla Cassa forense.

Infine, l’esperienza internazionale indica che le competenze giuste per la partnership e la leadership dello studio vanno individuate e coltivate attraverso un percorso strutturato che includa tre aspetti. Il primo riguarda percorsi di carriera prospettici secondo regole uguali per tutti a prescindere da aspetti personalistici. Il secondo prevede meccanismi di retribuzione in grado di incentivare il giusto mix di competenze necessarie allo studio. Infine, serve la formazione tecnica e soprattutto le competenze non tecniche necessarie per sviluppare le doti gestionali e di generazione di business.

Gli approcci italiani
Fin qui, il modello teorico di una riuscita pianificazione di successione. Nella pratica, la natura di lungo periodo del piano di successione rappresenta uno degli ostacoli maggiori alla sua realizzazione perché la gestione quotidiana dello studio erode all’osso il tempo disponibile per pianificare la successione, che viene sacrificata alle esigenze immediate.

Aspettare una crisi di successione (un vuoto di leadership, un name partner che lascia, la scomparsa dei fondatori), significa affidarsi a una profezia che si auto avvera. Un’insegna che non ha un piano di successione in atto ha certamente una crisi dietro l’angolo. All’impreparazione dovuta ai ripetuti rinvii si aggiunge l’ingombrante presenza accademica e familiare nella storia di molti studi noti.

Non si vede quindi un modello comune in Italia, ma diversi approcci alla successione: familiare, manageriale, aziendalistico. Allo stesso tempo, le diverse esperienze esprimono diversi gradi di distanza dal modello di successione delineata. E quindi diversi gradienti di rischio sulla capacità dello studio di portare a termine una successione che crei valore di lungo periodo. In particolare, si possono individuare quattro situazioni: studi che hanno affrontato il tema attuando il passaggio generazionale ora alla prova sul lungo periodo; studi che hanno il passaggio generazionale in corso; studi che si trovano nella condizione di doverlo affrontare con necessità impellente; studi che non l’hanno saputo gestire e si sono estinti. Il confine tra queste differenti situazio- ni non è però sempre netto e immediato ma richiede un’analisi che vada oltre le cariche formali.

La prima situazione può essere individuata negli esempi di studi che hanno portato a compimento almeno una prima successione: Carnelutti (TLIndex22), Chiomenti (TLIndex2), Galgano, Pavia e Ansaldo (TLIndex17), Pedersoli (TLIndex20), Pirola Pennuto Zei (TLIndex152), Ughi e Nunziante (TLIndex72). A questo primo gruppo è possibile applicare una ulteriore distinzione: Carnelutti, Chiomenti, Pavia e Ansaldo, Pirola Pennuto Zei, Ughi e Nunziante hanno scelto un approccio manageriale, mentre Galgano e Pedersoli hanno portato avanti una successione di stampo familiare. I tre figli del fondatore di Pedersoli, Alessandro Pedersoli, sono attivi in studio (Giovanni è tornato dopo dodici anni in Linklaters), consolidando la presenza sul mercato dello studio di famiglia che conta ormai oltre 60 anni di attività attraversando due fusioni e due scissioni.

Dall’incontro tra i ceppi di Pedersoli Grande Stevens e Schlesinger Lombardi nel 2001 era nato Pedersoli Lombardi; dalla fine del matrimonio nel 2003 rinacque l’odierno Pedersoli. Lo studio è stato fondato da Alessandro Pedersoli nel 1958, oltre ai tre figli equity partner (Carlo, Antonio e Giovanni), vi è anche il nipote (Edoardo) senior associate. In questo caso la presenza familiare ha rinsaldato la governance, contribuendo all’ascesa dello studio. A marzo, Pedersoli si posiziona in 20esima posizione nel TopLegal Italy Index. (prosegue)

L'articolo completo è stato pubblicato su TopLegal Review, nr. di aprile/maggio 2021, disponibile su E-edicola.


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